Il dato fondamentale dell’invasione russa dell’Ucraina resta a tutt’oggi quello della resistenza motivata e determinata del suo popolo. Un popolo che a chiare lettere ha detto di non voler rinunciare alla propria libertà e alla sovranità per nessuna ragione.
È una lezione per tutti i popoli del mondo, a cominciare da quello italiano che, dopo l’8 settembre 1943, si squagliò, si disperse (a partire dai suoi capi) di fronte all’occupazione tedesca. Ed è una lezione anche di fronte al facile “pacifismo” di cui molti, all’ultima ora, adesso si fregiano: “No alla guerra”, “Pace subito”. Ma davvero vogliamo mettere sullo stesso piano Putin e Zelensky o accettare una resa del popolo ucraino alle condizioni degli invasori? Perché la Storia dimostra proprio questo: che i confini sono definiti non dalle diplomazie ma dai risultati in campo e, in questo momento, gli ucraini sono pienamente coscienti che accettare le richieste dei russi significherebbe rassegnarsi ad una spartizione dell’Ucraina e ad una riduzione anche del territorio non occupato ad una colonia di Putin. Dunque, il movimento pacifista e non violento, che ha una sua dignità e un suo senso, avrebbe dovuto farsi sentire prima, quando Putin interveniva in altre aree geografiche contigue o persino all’esterno (come in Siria). Un popolo, un movimento forte non ha paura di nessuno e anche di fronte ad un potere autoritario è capace di perseguire i suoi obiettivi con la sola resistenza passiva (è stato dimostrato da Gandhi, da Martin Luther King e tanti altri). Ma adesso l’Ucraina è stata invasa e il risultato dello scontro non potrà che essere uno, cioè la prevalenza delle ragioni degli ucraini oppure degli interessi dei russi.
Per questo io ritengo che l’unica azione concreta e lungimirante da parte nostra e dell’Occidente europeo sia adesso quella di aiutare la resistenza ucraina con tutti i mezzi possibili; da quelli umanitari a quelli logistici; dalle sanzioni contro il Paese invasore al sostegno militare. Gli ucraini stanno infatti combattendo non solo per loro ma anche per noi, per l’Europa tutta. Dunque, non possiamo lasciarli soli, perché una “vittoria” russa significherebbe comunque incoraggiare Putin ad attaccare le repubbliche baltiche o altri Paesi confinanti. La loro guerra è pertanto la nostra guerra, che non è una guerra contro il popolo russo (al momento non solo colpito dalle sanzioni ma che vede morire i suoi giovani in un conflitto fratricida, non cercato e non voluto) ma perché una volta per tutte sia chiaro che il futuro dell’umanità è legato a relazioni tra Paesi e Stati che escludano ogni ipotesi di guerra, convenzionale o nucleare che sia.
Lo slogan della mia generazione post-sessantottina era: “Ora e sempre Resistenza!”. Purtroppo, dal Cile (1973) in poi, non sempre la resistenza popolare è riuscita a ribaltare la forza di poteri golpisti o autoritari. Ma questa volta vogliamo e possiamo farlo, in quanto lo scenario ipotetico più realistico sarebbe quello di una nuova Siria e di un conflitto che potrebbe in ogni caso imbroccare altre e pericolose vie.
Giovanni Artese