Il Presepe Antinori e il ritrovamento dei “pastori che dormono”

Spesso il fascino dei luoghi dove viviamo ci sfugge, perché fanno parte della nostra quotidianità: ma se ponessimo attenzione ai ricordi che evocano per la loro antichità saremmo certamente catturati da una nuova attrattiva a cui precedentemente non ponevamo attenzione. Le nostre città e i monumenti che racchiudono sono il prodotto di una plurisecolare stratificazione di interventi a cui ogni generazione che si succedeva a quella precedente, ha aggiunto qualcosa, lasciando un suo vestigio. I luoghi di abitazione dell’uomo sono cresciuti su se stessi in una incessante sedimentazione che ha qualcosa dei processi dell’organismo vivente, questo sia su un piano “macro” dell’intero tessuto urbano, sia a livello “micro” del singolo edificio che del tessuto urbano costituisce la cellula.

In questo processo incessante di crescita e di rinnovamento continuo accade talvolta che l’operato e la traccia relativa ad un periodo storico venga obliterata ed occultata da interventi successivi e questo accade anche per dei veri tesori. Quante opere d’arte dormiranno sotto gli intonaci e nelle nostre chiese? Questo caso non vale solo dipinti affreschi ma anche per alcune statuine da presepe davvero particolari. Un popolo silenzioso e immobile di donne, bambini, uomini e animali che dopo un letargo durato secoli ha ripreso lentamente il suo cammino. Stiamo parlando del cosiddetto Presepe Antinori, un piccolo grande esercito di pastori, alcuni alti fino a sessanta centimetri, eanimali, risalente al Seicento e riportato alla luce nel 2012 da un padre e da suo figlio, gli storici e ricercatori frentani Giacomo e Gaetano De Crecchio. Di quelle splendide figure alcune sono state restaurate grazie all’interessamento dell’allora direttore del Polo Museale d’Abruzzo, Lucia Arbace, che nel 2013 ottenne un finanziamento dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

Un antico, prezioso e fragile presepe che era appartenuto alla famiglia di Antonio Ludovico Antinori, per settant’anni arcivescovo de L’Aquila ed epigrafista che con i suoi studi contribuì ai lavori del Muratori e del Mommsen, per essere poi ereditato da Luigi Stella Maranca di Lanciano. Quando la sua famiglia si estinse i custodi del presepe divennero prima le suore dei Sacri Cuori di Gesù e Maria e poi i frati del convento Sant’Angelo della Pace, dove Giacomo De Crecchio li ha ritrovati e in seguito fotografati, catalogati e descritti nel libro “I pastori che dormono”, edito dalla casa editrice Rocco Carabba.

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«Un autentico, prestigioso tesoro, unico nel suo genere – come li definì la dottoressa Arbace – che testimoniano il passaggio dalle statue lignee a quelle degli artisti del Settecento napoletano. Un tesoro che supera per consistenza numerica i presepi di Napoli e che è possibile datare alla fine del Seicento grazie al lavoro del ricercatore Giacomo de Crecchio nell’archivio Antinori». La particolarità e l’eccezionalità di questo presepe risiede proprio nella fattezza dei suoi figuranti. Non gente di popolo, storpi, vaiasse di umidi rioni, straccioni e servi, ma per lo più personaggi della ricca borghesia, finemente abbigliati, con capelli veri, occhi di cristallo, calzature e perfino biancheria intima. Una riproduzione fedelissima di ciò che le famiglie nobili di un tempo prima e la ricca borghesia del Seicento dopo, volevano rappresentare nella loro immagine di Natività. Una fotografia di espressioni, movenze e costumi che è arrivata pressochè intatta fino a noi. Il Presepe Antinori è unico nel suo genere. Non si conosce al momento un altro esempio che ricordi questo metodo di raffigurare i pastori. Siamo lontani dai presepi “cortesi” napoletani. Dallo sfarzo apparente di teste e mani modellate in legno o ceramica e poi con i corpi sotto i vestiti fatti di stoppa e tenuti in piedi dal fil di ferro. Il piccolo esercito dei pastori Antinori è perfettamente intagliato in legno in tutte le parti anatomiche che si muovono autonomamente dal corpo come succede per i manichini.

Gli abiti della Madonna, di San Giuseppe e del Bambin Gesù sono di damasco e armesino, la corona, il diadema e la mazza di San Giuseppe in argento. Anche le dieci donne sono riccamente vestite con drappi in oro, fettucce, collane di corallo: hanno capelli naturali e copertine per la testa, scarpe, calze, biancheria. I bambini hanno le cuffiette, gli uomini perfino le cravatte. «I presepi cortesi raccontano l’opulenza del mercato napoletano sotto la corona dei sovrani Borboni – spiegava ancora Lucia Arbace. Il Presepe Antinori ha invece una caratteristica di un naturalismo forte che non rincorre l’estetica di tipo illuminista, che non bada ad aspetti esteriori, ma alla sostanza. Un’impennata decisamente naturalistica della statuaria lignea devozionale».

Il restauro di queste splendide opere d’arte, per un primo lotto di diciotto figure, fu affidato ad uno specialista del settore e uno dei maggiori esperti dell’arte presepiale, Antonio Cantone, che assieme alla moglie Maria Costabile è a capo di un celebre laboratorio napoletano che produce e distribuisce in tutto il mondo i pastori del presepe. «Abbiamo amato e amiamo questi pastori», scrive il ricercatore Giacomo De Crecchio nel piccolo booklet “I pastori Antinori riprendono il cammino” – e la loro sorte ci è così tanto cara che non smetteremo di accompagnarli nel loro cammino fino a quanto tutti saranno in grado di raggiungere la meta senza più ferite che ne rallentino l’andare. Ai frati minori che hanno la tutela di questo prezioso, raro presepe, si impone una gravosa responsabilità, motivo per cui non devono essere lasciati soli. Con loro non dobbiamo esimerci dal tentare quanto sia possibile per evitare di commettere l’errore più grave, quello di condannare il presepe Antinori a restare ancora nel buio».

Emozionante è il racconto che Gaetano De Crecchio fa del giorno e del momento in cui i pastori tornarono a vedere la luce, «Padre Luciano, monaco francescano, frugò nella sua tonaca alla ricerca delle chiavi. Riuscì ad aprire la porta di un confuso ripostiglio dove, in un vecchio baule, erano “dimenticate” le figure del più importante presepe d’Italia e così riapro idealmente una cartella del 2011 dove, sulla copertina, appuntai: progetto pastori nel Convento “S. Angelo della Pace”. L’anno prima, con mio padre Giacomo, varcavo per la prima volta le porte del convento lancianese, così incontrammo gli informatori della nostra ricerca. Ricordo di quel giorno che all’esterno, a fianco della chiesa, sotto il grande campanile rivestito di mattoni, faceva un gran freddo e che ad accompagnarci nella stanza dove, per qualche mese, avremmo predisposto il nostro campo base, fu Padre Luciano Milantoni. Attraversato il piccolo chiostro interno, ci fece salire delle scale, poi in ascensore fino all’ultimo piano della struttura e qui, attraversato un corridoio, finalmente giungemmo davanti a una porta. Si fermò e cominciò a frugare per cercare la chiave nelle innumerevoli tasche che si nascondono negli abiti dei monaci, mentre io, per curiosità, mi chiedevo quante ne potessero contenere. Poco dopo gli venne in aiuto Antonio, un giovane chierico con dei grossi occhiali, vestito comunemente e fornito della chiave giusta.

Allo spalancarsi della porta la prima cosa che percepii fu che la temperatura non era assolutamente cambiata e, per rendere l’idea di quanto facesse freddo, mi limito a dire che le lenti dell’obbiettivo della macchina fotografica erano completamente appannate, esternamente ed internamente. I primi passi verso una nuova ricerca restano sempre i più emozionanti e determinanti, amo la sensazione che si prova al primo incontro con l’oggetto/soggetto della ricerca del momento…il timore, l’emozione, l’imbarazzo, le presentazioni, gli sguardi, i lunghi silenzi. La stanza in cui entrammo aveva l’aria di essere un grande ripostiglio, un poco in disordine, non molto frequentato, con una velatura di polvere uniforme su ogni cosa: un antico pianoforte di legno e una fisarmonica con i tasti di madreperla, varie statue devozionali a figura intera e a mezzo busto, grossi pezzi di corteccia di pino e del muschio da utilizzare per l’allestimento scenografico del presepe parrocchiale, un vecchio lavello, una cucina elettrica, qualche scrivania e sulle pareti una cartina geografica scolorita, poi, qualche icona.

Mentre mi chiedevo dove fossero i nostri informatori, oppure se avessero disertato l’appuntamento, Padre Luciano si avvicinò a uno dei numerosi bauli posti nella stanza e, sollevato il coperchio di quello rivestito di velluto arancione fissato da borchie dorate, “li” vidi che ci aspettavano supini, accalcati l’uno sull’altro, di testa e di piedi, come accadeva nelle famiglie contadine agli inizi del ‘900, quando un letto doveva bastare per tutti della famiglia. Forse, un poco annoiati ed un tantino infastiditi da tanto mistero, potreste anche obiettare: di cosa sta parlando? Quante persone potrebbero mai restare immobili in un vecchio baule? E chi saranno mai, un gruppo di contorsionisti? Ecco svelato l’arcano, eravamo lì per degli antichi pastori: non pastori qualunque, ma delle vere e proprie opere d’arte artigiana, espressione di scultori sul finire del Seicento. Appartenevano alla famiglia Antinori dell’Aquila. In totale, i pezzi che contammo e che componevano l’intero presepe erano centootto di cui ottantaquattro figure, tutte lignee e con articolazioni snodabili, vestite con abiti di stoffa e lana cuciti a mano, con scarpe in pelle, poi, a seguire, una corte di animali, in legno ed in cartapesta».

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