«Sognatore è un uomo con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole». È questo aforisma, contenuto tra le centinaia di frammenti del Diario degli errori, a sintetizzare la vita di un grande abruzzese: Ennio Flaiano. Perciò non è casuale che sia scolpito sulla lapide che il Comune di Roma ha installato nel 2003 davanti alla casa del quartiere Monte Sacro in cui ha vissuto dal 1953 al 1972 il geniale giornalista, scrittore, critico cinematografico e teatrale, sceneggiatore brillante e originale.
Nessuno più di lui è riuscito a raccontare e irridere vizi e virtù degli italiani. Del resto, si è sempre affidato al potere della scrittura: «Io credo soltanto nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere». E inoltre: «La parola nasconde il pensiero, il pensiero nasconde la verità. E la verità fulmina chi osa guardarla in faccia».
Flaiano è stato questo: una voce fuori dal coro, mai banale, né benevola nei confronti di luoghi comuni e miserie umane. Ha messo alla berlina ipocrisie e opportunismi di massa, come quelli che descriveva già nel 1954 in Un marziano a Roma, in cui sembra prevedere le degenerazioni del mondo dello spettacolo. Nel racconto si legge che il 12 ottobre 1953 un extraterrestre di nome Kunt atterra con la sua navicella spaziale a Roma, dentro Villa Borghese, ma la parabola della sua effimera notorietà si consuma in meno di tre mesi: la fase ascendente inizia con la crescente curiosità dell’opinione pubblica, raggiunge velocemente il picco della celebrità per poi discendere vertiginosamente nel cinismo e nella derisione. Sbeffeggiato per la sua diversità, il giorno della Befana del 1954 il marziano decide di lasciate il pianeta Terra, ma non sa nemmeno se potrà farlo, perché il consorzio degli albergatori gli ha pignorato l’astronave. Un marziano a Roma divenne sceneggiatura teatrale e, nel 1983, fu trasposto in un film per la televisione. La prima rappresentazione al Teatro Lirico di Milano, nel 1960, fu un fiasco: nonostante il protagonista fosse impersonato da Vittorio Gassman, lo spettacolo fu subissato di fischi e pernacchie del pubblico. Flaiano non perse la sua ironia commentando: «L’insuccesso mi ha dato alla testa». La fama dell’extraterrestre, improvvisa e inaspettata, figlia del consumismo, era poggiata sulle nuvole, come alcuni dei capolavori cinematografici che Flaiano scrisse per Federico Fellini. Nel girotondo onirico che chiude 8 e 1/2, il confuso protagonista, il regista Guido Anselmi, interpetato da Marcello Mastroianni, si vede passare davanti agli occhi tutti i personaggi di quel film di cui non è riuscito a scrivere il soggetto.
Sceneggiature, quelle di Flaiano, frutto di un’intelligenza che si esprimeva attraverso molti generi narrativi, dall’aforisma agli appunti di viaggio, dall’unico romanzo, Tempo di uccidere (vincitore del Premio Strega nel 1947), ai racconti brevi, come quella Autobiografia del blu di Prussia in cui sembra assumere sembianze umane quel colore che, per l’autore, rappresenta il cattivo umore.
La sua visione del mondo era l’esatto contrario di quella di un altro abruzzese illustre, Gabriele D’Annunzio: il Vate era poeta immaginifico, superuomo, comandante di legionari, invece l’arguto giornalista del Mondo e del Corriere della Sera era tutt’altro. Dissacratore, antieroico, caustico, capace di sarcasmo non solo nei confronti degli altri, ma anche nel giudicare se stesso, perché praticava «il culto della mancanza di personalità», anche perché «la realtà comincia a superare la satira», come scrisse nella premessa de Le ombre bianche, il libro – pubblicato nel 1972, anno della sua morte – in cui conferma tutta la genialità nel decifrare il mondo circostante e nell’individuarne ogni segnale di decadenza. Fermo restando che «il peggio che può capitare a un genio è di essere compreso».
Ai giorni nostri, di uno come Ennio Flaiano ci sarebbe bisogno. Posando il suo sguardo beffardo sulla realtà, probabilmente riderebbe sotto i baffi, perché capirebbe di aver precorso i tempi descrivendo, con decenni d’anticipo, la società dell’apparire a tutti i costi. Per questo, forse, si divertirebbe dicendoci: «Coraggio, il meglio è passato».