Il conflitto in Ucraina prosegue continuando a portare distruzione e mietere vittime. Qualche spiraglio di luce sembra intravedersi dai negoziati ma, ad oggi, è difficile dire cosa potrà accadere nei prossimi giorni. Abbiamo intervistato il Generale di Corpo d’Armata Massimiliano Del Casale, vastese e socio del Gruppo ANMI di Vasto, già Presidente del Centro Alti Studi per la Difesa e, in tale veste, responsabile del Centro Militare di Studi Strategici. Il generale Del Casale, che conserva un forte legame con la sua Vasto e con il sodalizio marinaresco, ha accolto con favore la possibilità di dare un contributo, alla luce della sua grande esperienza, ad una lettura di quanto sta accadendo in Ucraina.
Come valuta l’attuale situazione in Ucraina? È vero che le cose sul campo non stanno andando proprio come i Russi si aspettavano? Come valuta l’offensiva di Mosca?
«Nessuno può avere certezza di quanto sta realmente accadendo sul terreno, in questa guerra che non è iniziata il 24 febbraio scorso, bensì nel 2014 con l’annessione russa della Crimea e l’inizio della crisi del Donbass. Come nessuno può conoscere quali siano esattamente i piani e i reali obiettivi, sia militari che politici, di questa invasione. Troppo forte è la disinformazione, da ambo le parti, e i nostri inviati di guerra, davvero bravi e coraggiosi, possono raccontarci solo ciò che accade accanto a loro. I Russi si sono impantanati? Nessuna operazione militare si sviluppa come viene pianificata. È un po’ come il calcolo delle probabilità. Un attrito si mette sempre in conto, ma poi la resistenza che s’incontra sul terreno è funzione di tante variabili, prima fra tutte l’ambiente naturale. L’Ucraina è un’immensa pianura grande il doppio dell’Italia, abitata da oltre 42 milioni di persone. È priva di qualsiasi ostacolo naturale. Unico elemento di discontinuità è il Dnepr, il quarto fiume più lungo d’Europa, che taglia nel mezzo il territorio, da nord a sud. Solo le città costituiscono un elemento importante sotto i profili militare, sociale, politico ed economico. Di sicuro, i Russi conoscono da tempo la reale capacità dell’esercito ucraino, forte di oltre 200.000 uomini, equipaggiato di massima con le stesse dotazioni dell’armata russa e le cui forze migliori sono da tempo a est del Paese, a fronteggiare le milizie filorusse del Donbass. Ma a Mosca non si aspettavano, a mio giudizio, un appoggio agli Ucraini da parte dell’Occidente, così tempestivo, ampio ed efficace, specie per l’approvvigionamento delle armi, al punto da rendere sinora determinante per le sorti della guerra la capacità difensiva ucraina».
Non è allora una “guerra lampo”?
«No, non ne possiede i caratteri. Prima di tutto, non è questa la stagione adatta. I Russi avrebbero potuto attendere la fine del disgelo, quando, liberatosi da neve e fango, il terreno avrebbe offerto ben altra compattezza rendendosi ovunque percorribile da parte dei veicoli da combattimento, ruotati e cingolati, senza dover ricorrere quasi esclusivamente alla rete stradale, facilmente controllabile e difendibile da parte delle difese ucraine, e senza mettere in crisi la propria catena logistica di supporto alle operazioni militari. Non si conduce poi un’offensiva rapida con un rapporto di forze di 2 o, al massimo, di 2,5 a 1. I Russi sono forti di 850.000 uomini. Avrebbero potuto tranquillamente impegnare il doppio dell’attuale contingente attaccando con decisione da nord, tenendo comunque impegnato a est, nel Donbass, il meglio delle truppe ucraine e sviluppando anche a sud decise “azioni concorrenti”. Avrebbero potuto bombardare porti e aeroporti, i principali nodi di comunicazione, stradali e ferroviari, con continuità. Anche ad ovest, da dove provengono i flussi di armi occidentali per gli Ucraini. Annientata la contraerea, all’inizio delle operazioni, avrebbero potuto fare ricorso ai bombardieri strategici, capaci di volare fuori dalla portata dei sistemi terra-aria spalleggiabili Stinger, usati in grande quantità dai difensori, invece di limitarsi a missioni di appoggio aereo ravvicinato, a bassa quota, alle loro unità di fanteria. La flotta del Mar Nero avrebbe potuto bombardare le spiagge di Odessa, mentre venivano minate dagli Ucraini, e sbarcare in forze creando un’ampia “testa di sbarco” facilmente alimentabile dalla Crimea e dal territorio continentale russo grazie al Ponte di Kerç che chiude il Mar d’Azov, collegando le città di Kerç, in Crimea, e di Taman, sulla costa continentale russa. Ma non han fatto nulla di tutto ciò. Quindi, penso che Mosca abbia intrapreso un’offensiva con un duplice obiettivo: sul piano militare, conquistare e occupare le aree russofone, con il Donbass e tutta la fascia costiera del Paese, sino al ricongiungimento con le popolazioni moldave della Transnistria, anch’esse russofone, privando in sostanza l’Ucraina occidentale, percepita come la più ostile, di uno sbocco al mare. Sul piano politico, imporre la neutralità alla futura nazione ucraina e la rimozione dell’attuale leadership di Kiev».
Ma perché bombardare le città o attaccare i civili?
«Per abbattere il morale delle popolazioni e la loro convinzione di riuscire a superare questi momenti drammatici. Ma anche per fiaccare le difese militari. In secondo luogo, per favorire comunque il movimento dei profughi che, intasando le vie di comunicazione, rendono difficile il movimento delle truppe ucraine, all’interno del territorio».
Come giudica l’operato della NATO e dell’Unione Europea? E l’Italia? Cosa pensa delle mosse del nostro Paese?
«Da europeo, dovrei dire male, in quanto i segnali premonitori di un confronto erano fin troppo chiari sin dal 2014, con le crisi di Crimea e Donbass. Ma le leadership europee di quel tempo hanno preferito mantenere le distanze per innumerevoli ragioni, comprese quelle di natura economica ed energetica. La NATO, nei giorni successivi al 24 febbraio, ha reagito come prevedono i piani dell’Alleanza atlantica, rinforzando le difese lungo i propri confini orientali e mettendo in guardia l’aggressore da qualsiasi idea di allargamento del conflitto. Chi poi critica la tendenza della NATO ad espandersi dimentica almeno un paio di aspetti rilevanti. Il primo è che l’ingresso di un nuovo Membro nell’Alleanza deve essere approvato all’unanimità dai Paesi che già ne fanno parte e, per quanto concerne l’Ucraina, il diniego al suo ingresso risale addirittura al 2008, in occasione del Vertice NATO di Bucarest, quando Francia, Germania e Italia – col governo Prodi in carica – espressero la propria contrarietà. In secondo luogo, non è l’Alleanza che fa proselitismo, ma i singoli Paesi che chiedono di farne parte, probabilmente attratti da un modello sociale democratico e da uno politico-militare di natura difensiva che è stato comunque capace di assicurare oltre 75 anni di pace al nostro continente, minacciato ora per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale».
L’Europa ha aperto all’arrivo dei profughi in modo spontaneo e incondizionato
E l’Unione Europea?
«L’Unione Europea ha dato un segnale di coesione e di solidarietà all’Ucraina come mai prima, nella sua storia. Ha subito condannato, senza riserve, l’aggressione aderendo al pacchetto delle sanzioni contro la Russia, sostenendo l’invio di armi difensive a Kiev, decidendo subito l’incremento sino al 2% del PIL per le spese militari, come chiesto dalla NATO, e dando vita allo “strategic compass”, la cosiddetta “bussola strategica”: un pacchetto di misure condivise, da adottare entro il 2030, per dare concretezza ad un sistema di Difesa europea, autonoma ma complementare alla NATO, dopo oltre venti anni di alti e bassi nell’affrontare i temi relativi alla difesa e sicurezza. Si integreranno spese militari con obiettivi comuni. Ambizione iniziale, l’allestimento entro il 2025 di una forza militare europea di dispiegamento rapido, di 5.000 uomini, a parer mio più simbolica che efficace, e un pacchetto di 200 esperti di missioni operative. Sino a raggiungere una capacità militare di 60.000 uomini entro il 2030. Ma l’Europa ha fatto di più, aprendo all’arrivo dei profughi in modo spontaneo e incondizionato. Verrebbe quasi da chiedersi se, in materia di immigrazione, il Trattato di Lisbona sia ancora valido o sia stato sospeso, visto che in particolare i Paesi del cosiddetto Gruppo di Visegrad, cioè Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, ben lungi in passato dall’aver consentito alla UE di favorire la ridistribuzione per quote dei profughi o immigrati provenienti via mare sulle coste italiane, adesso si affannano nel cercare presso le istituzioni di Bruxelles il via libera per ridistribuire a loro volta nel continente gli Ucraini in arrivo. Sia ben chiaro, lo dico solo come dato. Nessuno deve tirarsi indietro in questo momento emergenziale. Nemmeno la Gran Bretagna che, sebbene non faccia più parte della UE, manifesta a partners ed Alleati le sue buone intenzioni, ma poi finisce per accettare solo profughi ucraini che hanno già parenti sul suolo di Sua Maestà.
L’Italia, dal canto suo, si è mossa a mio avviso in modo giusto, con una assertività che peraltro non le riconoscevo, attestandosi subito sulle posizioni della NATO e dell’Unione Europea. Tutto l’arco parlamentare ha appoggiato il premier Draghi senza condizioni, sebbene siano già apparsi i primi distinguo. Certo, sarà più difficile ora rivendicare un ruolo di mediazione nel confronto russo-ucraino, come del resto lo sarà anche per la UE. Le scelte di campo comportano sempre effetti collaterali. Specialmente se accompagnate da occasioni in cui importanti uomini di governo si lasciano andare ad esternazioni fuori luogo nei confronti di un leader belligerante. Può essere comprensibile, ma non si fa. Punto. Tanto più perché a pagarne poi le conseguenze sarà il Paese intero che, tra l’altro, deve ancora trovare la strada per svincolarsi dalla dipendenza energetica nei confronti della Russia».
«Occorre sempre perseguire soluzioni negoziali»
Lei avrebbe rifornito di armi gli Ucraini?
«Risponderle è meno semplice di quanto si immagini. Di certo, esiste una sproporzione di forze tra i contendenti, sebbene meno evidente sul campo. Quindi, sul piano etico dico di sì. C’è un aggressore, militarmente più forte, una potenza militare mondiale, e c’è un aggredito, meritevole quindi di ogni aiuto possibile. Poi, però, c’è la politica che compie le scelte. E questa è una decisione politica. L’Italia dal canto suo è inserita nell’Unione Europea e nella NATO. Entrambe hanno concordato e deciso azioni concrete, a partire dalle sanzioni. Quindi, non vedo alternative plausibili. Certamente, occorre sempre perseguire soluzioni negoziali. Ma a quanti oggi si accalorano nell’affermare la follia della guerra, sulla quale sono certo siamo tutti d’accordo, pensando addirittura di poter imporre un negoziato alle parti, andrebbe fatto notare che per sedersi attorno ad un tavolo è necessario essere in due, mentre per scatenare una guerra basta la volontà di un unico soggetto. Altro, poi, è parlare di “no-fly zone” o di blocco navale. Si tratta di vere e proprie azioni di guerra. Assumere iniziative del genere ci porterebbe fuori dall’art. 5 del Trattato di Washington, in tema di difesa comune tra i Membri della NATO. Non tutti approverebbero e sarebbe probabilmente la fine stessa del Patto Atlantico, se non addirittura della UE».
Un tema di grande attualità è quello dell’aumento delle spese militari. Qual è il suo punto di vista a riguardo?
«Le rispondo citando un suo illustre collega, Paolo Mieli, il quale alcuni giorni fa scriveva che la “sicurezza e la libertà di un Paese valgono più del costo della bolletta della luce”. Come non essere d’accordo? Vorrei solo ricordare che il tetto del 2% di PIL per tutti i Membri della NATO fu fissato già nel 2016, in occasione del Vertice di Varsavia, con Obama Presidente USA, Renzi premier e Pinotti ministro della Difesa. E tutti i governi successivi in carica non hanno mai contravvenuto a questo criterio concordato a livello internazionale. Un tetto fissato all’epoca in un momento delicatissimo per l’Italia che stava venendo fuori dal periodo nero di inizio decennio, scambiando le feroci condizioni imposte dal “patto europeo di stabilità” con la flessibilità nel rientro dal debito pubblico. Un momento che non è ancora terminato e che definirei durissimo per le nostre Forze Armate, alle prese ancora oggi con i rigidissimi limiti organici fissati dalla Legge 244/2012 che prevede un abbattimento – è proprio il caso di dirlo- del 25% degli organici complessivi, passando dai 190.000 effettivi del 2012 a 150.000 unità entro il 2032. Limite poi anticipato addirittura al 2024 con provvedimento “motu proprio” dall’allora ministro della Difesa, ammiraglio Di Paola. Un’iniziativa che ha imposto un taglio drastico su tutto, dal personale alle spese per l’Esercizio, costringendo oggi le nostre donne e i nostri uomini con le stellette a sacrifici enormi per mantenere su livelli di efficienza appena accettabili i sistemi e i mezzi che lo Stato affida loro, il grado di addestramento e la capacità operativa delle nostre Unità. In altre parole, la sicurezza stessa del nostro Paese. E la sicurezza non è una risorsa commerciabile come il gas o il petrolio. Semplicemente, non ha un prezzo. O la si persegue, a salvaguardia della comunità, o dovremo dipendere da altri. Magari commettendo errori analoghi a quelli compiuti per le risorse energetiche, cioè mettendoci nelle mani di partners inaffidabili. I reclutamenti del personale sono ovviamente limitati per rispettare limiti imposti, con la conseguenza del veloce invecchiamento di quanti sono in servizio. L’età media della base, dei nostri soldati, è in questo momento più prossima ai 50 che ai 40 anni. E parliamo di individui, in gran parte veterani, ognuno con una media all’attivo di 4-5 missioni nei più disparati teatri di crisi, ai quali si chiede di essere capaci ancora di imbracciare un’arma e scendere giù da un elicottero con oltre 25 chilogrammi di equipaggiamento sulle spalle. La riduzione organica, peraltro non ancora completata, ha portato a chiudere fior di Unità operative del nostro esercito, come dire, “gettando anche il bambino con l’acqua sporca”. Il rischio è di perdere ampi pezzi di “know-how” in capacità essenziali per la sicurezza. La Marina Militare si sta dotando di unità navali modernissime, ma poi finisce per non avere personale sufficiente per equipaggiarle. E potrei andare oltre. Quindi, è a mio avviso necessario che si metta mano al recupero di capacità, eventualmente perdute o ridimensionate, con la modifica alla L. 244/2012 e si intraprenda fattivamente e rapidamente il percorso che ci dovrà condurre a fissare sul 2% del PIL le nostre spese militari. Solo così, anche nel correggere talune storture del recente passato, potremo porci come interlocutori credibili e attivi nelle Organizzazioni di cui siamo punto di riferimento, NATO e UE su tutte, senza dipendere da entità statuali esterne».
Cosa dobbiamo aspettarci per il futuro? Ci dà qualche prospettiva di uscita da questo tunnel?
«Dobbiamo sempre guardare con fiducia al futuro. Perseguire, prima di tutto, ogni tentativo utile per aprire un negoziato tra Russia e Ucraina che porti alla immediata cessazione delle ostilità. In questi giorni, abbiamo sentito spesso ventilare la minaccia dello spettro nucleare. Non credo francamente che ciò si concretizzi. Putin non è né pazzo né sprovveduto. E’ un autocrate alla guida di un Paese totalitario che osa fin dove gli è stato sinora consentito dalla comunità internazionale, ma conosce bene i rischi di una escalation del conflitto. Ha enunciato egli stesso il disegno di riunire in un’unica nazione il popolo russo frapponendo nel contempo Stati cuscinetto tra la Russia e quelle realtà democratiche invise ad una leadership autoritaria. Ciò può solo significare che prossimo bersaglio saranno i Paesi Baltici. Una minaccia in più perché parliamo di Membri della NATO. Un’aggressione ad uno solo di essi provocherebbe la reazione dell’intera Alleanza in difesa dello Stato Membro aggredito, in applicazione dell’art. 5 del Trattato di Washington. E lì sarebbe davvero arduo prevedere un esito del confronto, che sarebbe totale. Ecco perché la costruzione della pace passa, sì, attraverso il dialogo continuo, ma va perseguita anche con un sistema di difesa e sicurezza capace e credibile e al quale è necessario contribuire. E’ doloroso constatare che molti non lo vogliano comprendere. Dobbiamo poter contare su una nostra politica estera che si muova con una strategia chiara e coerente. Sinora abbiamo invece assistito ad un atteggiamento discontinuo e balbettante, a volte persino incoerente, che ci ha condotti ad una progressiva riduzione dei nostri spazi vitali, a partire dal Mediterraneo. In Libia, in particolare, ove grandissimi sono i nostri interessi energetici oltra che storici. Invece, abbiamo lasciato un vuoto prontamente colmato da Francesi e Turchi, mentre i nostri militari venivano impiegati in Patria come manovalanza a basso costo, a movimentare banchi a rotelle nelle scuole oppure, nella migliore delle ipotesi, a vigilare qualche sede diplomatica. Lo trovo avvilente. Dobbiamo comprendere che è finito il tempo di far conto, in caso di crisi, solo sulla presenza e sul supporto dell’alleato maggiore, di riferimento. Non deve essere considerata un tabù la consapevolezza di indossare i panni di contributori seri e credibili, in materia di sicurezza, nel consesso internazionale al quale abbiamo deciso di appartenere. Tanto più adesso, che la stessa Ucraina ha già espresso la volontà di porre l’Italia tra i garanti della sua neutralità, che verosimilmente andrà a dichiarare di voler acquisire per il futuro al tavolo del negoziato. Vede, credo molto nei movimenti che promuovono il dialogo e la pace. Ma per dialogare occorre che vi sia disponibilità da entrambe le parti a farlo. Né possiamo d’altro canto pensare che sia sufficiente assumere un atteggiamento pacifico o pacifista, mentre gli altri riempiono di missili i propri arsenali. Quindi, confidiamo nel futuro, ma a patto di pensare sul serio anche alla sicurezza del nostro Paese».
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