L’Aquila, 14 anni dopo: «Cerchiamo giustizia, non vendetta. Continuiamo a lottare e parlarne»

«Davide era partito da qui, con la sua valigia di sogni, ed era andato a L’Aquila dove stava cercando di diventare grande. Credo sia giusto essere qui, è anche un atto di restituzione per tutto l’affetto che abbiamo ricevuto in questi anni». Liliana Centofanti, sorella di Davide, studente universitario morto sotto le macerie della Casa dello Studente il 6 aprile 2009, ha voluto fortemente organizzare un incontro con gli studenti del Polo Liceale Mattioli, alla vigilia del 14° anniversario del sisma che ha sconvolto L’Aquila e l’Abruzzo. Con lei compagni di viaggio in cui, in questi anni, ha condiviso dolore e battaglie, testimonianza e voglia di ripartire, Renato Di Nicola (Abruzzo Social Forum), Vincenzo Vittorini (Associazione 309 Martiri dell’Aquila) e suo figlio Federico Vittorini (Fondazione 6 aprile per la vita) e, in collegamento da L’Aquila, la psicoterapeuta Ilaria Carosi.

Dopo gli interventi introduttivi della dirigente scolastica Maria Grazia Angelini, del vicesindaco Licia Fioravante e dell’assessore alle politiche scolastiche Anna Bosco, Liliana Centofanti ha spiegato come «da quel 6 aprile è iniziato un percorso di umanità, legalità e richiesta di giustizia». Per Vincenzo Vittorini, che quella notte ha perso la moglie e la figlia, «ricordare chi da quella notte non c’è più con il sorriso è la cosa migliore da fare».

E arriva da Stefano, studente del Mattioli una testimonianza su quei giorni. La sua famiglia è originaria del capoluogo di regione. «Ero a L’Aquila fino a qualche giorno prima per il mio compleanno. Ricordo che i miei genitori, a un tratto, partirono di notte e poi mi trovai la casa invasa da zii, nonni, senza capirne il motivo. Mio nonno, una vita intera trascorsa lì, soffriva per la sua città distrutta. Quando ho capito cosa era successo, ho sofferto anch’io».

L’Aquila era la «città degli aquilani e degli studenti universitari. Tra le 309 vittime 55 erano ragazzi», dice Centofanti che poi esorta gli studenti «ad andare avanti nella scuola per diventare adulti consapevoli, ognuno di voi avrà una professione e si potrà trovare nella circostanza di doversi chiedere se quello che sta facendo è giusto o sbagliato».

Nel ripercorrere le vicende di quei giorni c’è la consapevolezza che «qualcosa poteva essere fatto, poteva essere detto in tanti mesi di scosse. Ma è stato detto ciò che non doveva essere detto, che era tutto a posto. Una cittadinanza intera si è dovuta proteggere da sé». Una convinzione rafforzata anche dalle parole di Fabiola Tamburro, che quella notte ha perso il papà, la sorella e il nipotino. «Gli aquilani sono abituati al terremoto. Mia sorella si è fidata, la popolazione era stata anestetizzata, si è fidata di parole che non andavano detto».

Il dottor Vincenzo Vittorini ricorda «le tante notti passate fuori casa da ragazzo. Sapevamo, per storia della nostra terra, come comportarci quando c’erano le scosse. Il 30 marzo, mentre tornavo dall’ospedale di Popoli, trovai tutta la città fuori casa, perché c’era stata una forte scossa». Il giorno seguente arrivò in città la Commissione Grandi Rischi, con le sue rassicurazioni. «Dissero che era meglio ci fossero tante scosse, così si dissipava l’energia. Ma tante cose di quella riunione le abbiamo scoperte solo dopo, durante il processo». Gli aquilani ascoltarono quelle parole e, in tanti, restarono nelle case. «Mi fidai di quello che ci era stato detto. Presi la decisione di restare in casa che però fu sbagliata. Ma, se non ci fosse stata quella riunione, non avremmo cambiato il modo di affrontare il terremoto».

Ai giorni del dolore sono seguiti quelli della lotta. «Dovevamo scegliere. O chiuderci in noi stessi o combattere tutti insieme. E così ci siamo uniti con il coordinamento delle altre stragi italiane per chiedere verità, giustizia, prevenzione e regole perché ci sia un equo processo non solo per chi viene accusato».

Renato Di Nicola era partito da Sambuceto per «stringere mani e dire, a chi aveva bisogno di aiuto, io ci sono». Ricorda le settimane segnate dal processo di divisione «tra chi era sulla costa, negli alberghi, e chi era nei campi. Lì non abbiamo potuto consegnare giornali, non si poteva cucinare, chi era nei campi non poteva far nulla. Io sostengo che L’Aquila abbia fatto da cavia per un progetto di controllo della popolazione e di come reagisce a determinati eventi».

Ilaria Carosi, che si è subito prodigata nell’aiutare la sua città, parla di «resilienza», parola usata spesso fuori contesto, per descrivere la reazione degli aquilani. «La società ci aiuta poco ad approfondire le cose negative che ci accadono. Imparare a condividere è una delle modalità per abbassare l’emotività».

Si rivolte ai ragazzi Federico Vittorini, esortandoli ad un impegno in prima persona. «Non c’è bisogno di perdere madre e sorella per svegliarsi. Sappiamo che non si può cambiare il mondo ma ognuno può cambiare il proprio giardino». Da qui il «consiglio di non essere impassibili, di entrare nelle cose, prender anche gli schiaffi, se serve, ma sentirsi vivi e partecipare». Oggi «siamo frastornati dalle ingiustizie, nessuno ha l’utopia di fermarle ma almeno possiamo denunciarle e dare un senso al nostro stare in vita».

Un passaggio intenso è quello sulla Casa dello Studente. «I ragazzi – racconta Liliana Centofanti – avevano segnalato delle crepe ma è stato detto loro che era tutto a posto. Davide era al terzo piano, l’abbiamo ritrovato al piano terra. È stato inghiottito da un alloggio che doveva dargli le ali per diventare adulto. Nel mondo in cui crollano gli edifici pubblici è il sistema a essere distrutto». E oggi, portare avanti la memoria, è un impegno di tutti. «Se questo fare memoria entrasse in ognuno di noi, non ci sarebbe bisogno di giornate del ricordo».

A L’Aquila, come in tante altre tragedie italiane, c’è anche da fare i conti con una giustizia che, spesso, mantiene aperti molti interrogativi. «Veniamo visti come quelli che vogliono una verità giustizialista. Ma non è così, non facciamo processi per vendetta, ma per sapere. In quello che facciamo, nelle nostre professioni, ci assumiamo delle responsabilità, nel bene o nel male. Perché lo Stato non le assume?».

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