Ucraina, generale Del Casale: «Soluzione al conflitto potrà pervenire solo dal negoziato»

A dodici mesi dall’inizio del conflitto tra Russia e Ucraina abbiamo intervistato il Generale Massimiliano Del Casale, vastese, socio del Gruppo Anmi di Vasto, già Presidente del Centro Alti Studi per la Difesa e responsabile del Centro Militare di Studi Strategici, con cui già nei mesi scorsi avevamo fatto il punto sulla guerra.

Il generale Del Casale

A un anno di distanza dall’invasione russa dell’Ucraina, quella che era inizialmente apparsa come un’operazione “lampo” ha via via assunto i toni di una guerra di posizione. Una situazione di stallo su un territorio devastato, con le forze ucraine sostenute economicamente e militarmente dai Paesi europei e dagli Stati Uniti. E con i russi che, a seguito dell’offensiva ucraina dello scorso autunno, hanno dovuto cedere una parte consistente dei territori occupati, lungo l’intero sviluppo dei 1.500 chilometri del fronte, perdendo le città di Kherson, Karkiv, Izyum e Lyman. Un’offensiva resa possibile dalla fornitura di armi e di intelligence da parte dell’Occidente e che ha sinora provocato oltre 100.000 perdite, tra morti e feriti, alle forze di Mosca, costretta dal canto suo a richiamare e mobilitare mezzo milione di riservisti e di giovani coscritti.

[foto archivio governo russo]

Viene dato per imminente l’avvio di una vasta controffensiva russa, affidata sia alle forze regolari di Mosca che alle unità di combattenti volontari ceceni di Ramzan Kadyrov, fedelissimo di Putin, e ai mercenari del gruppo Wagner agli ordini dell’oligarca Yevgeny Prigozin. Ma qual è oggi la situazione sul terreno? Dopo il ritiro da Kherson, le forze di Mosca si sono trincerate ad est del fiume Dnepr e fronteggiano gli attacchi ucraini che si vanno progressivamente affievolendo, vuoi per l’ampiezza del fronte vuoi per una catena di rifornimenti assai problematica perché affidata al solo sostegno militare occidentale. Come anticipato nei mesi scorsi, le artiglierie e i missili russi stanno devastando l’intero Paese anche per fiaccare la resistenza della popolazione ucraina. Nel contempo, Mosca cerca un concreto risultato sul campo a favore della propria propaganda, per celebrare il primo anniversario dell’operazione militare speciale.

Sotto tale profilo, vanno interpretati la conquista della cittadina di Soledar e l’assedio, tuttora in corso, di Bakhmut, nell’oblast di Donetsk, nell’est del paese. Un assedio ad opera soprattutto del gruppo Wagner, ma il cui esito favorevole darebbe ai russi un vantaggio simbolico, ma importantissimo per il prosieguo delle operazioni militari. Bakhmut è infatti un centro minerario reso strategico dai giacimenti di sale, sfruttando i quali, in passato, sono state realizzate nel sottosuolo gallerie per decine e decine di chilometri, anche ad oltre cento metri di profondità, con spazi dalle dimensioni inimmaginabili (prima della guerra, vi si tenevano persino dei concerti). Spazi e gallerie che, in caso di conquista russa, consentirebbero di accantonarvi armi, mezzi, materiali e munizioni ed offrire persino protezione ad intere unità militari, consentendo uno strategico accorciamento della catena logistica a favore delle forze impegnate sul fronte.

[foto archivio governo ucraino]

Zelensky, dal canto suo, non perde occasione per invocare l’invio di armamento più pesante allo scopo di contrastare ogni possibile iniziativa militare di Mosca, che potrebbe materializzarsi prima che il disgelo primaverile finisca per inibire, col fango delle grandi pianure ucraine, ogni velleità di manovre su ampia scala. Sotto tale profilo, va letta la martellante richiesta di carri armati e aerei da caccia occidentali, tecnologicamente più avanzati di quelli di Putin. Il confronto tra Paesi partner e alleati ha portato ad assicurare a Kiev solo qualche decina di tank, peraltro di diverse tipologie. Sul tema, secondo una stima dell’International Institute of Strategic Studies, nel corso del 2022, il Cremlino avrebbe perduto quasi il 40% dei carri armati disponibili, passando da 3.000 a 1.800 unità, che rappresentano comunque una massa di manovra dalle dimensioni smisurate rispetto a quelle ucraine, spesso costrette a riutilizzare carri armati russi catturati in combattimento. Sui caccia militari -gli F-16 americani, di cui sono dotati diversi Paesi NATO -, si è sinora registrato un rifiuto dell’Occidente, in quanto il loro impiego implicherebbe un quasi certo sconfinamento ucraino in territorio russo, con un’imprevedibile quanto assai probabile escalation. In ogni caso, resterebbe il grande problema dell’addestramento del personale. Formare gli equipaggi all’impiego operativo di carri armati, peraltro tecnicamente differenti tra loro, comporta soprattutto tempo, che gli ucraini non hanno. Per formare poi piloti da caccia di ultima generazione, sono necessari anni di addestramento e ore di volo, senza trascurare l’onere connesso con la logistica. Un’ora di volo ne comporta mediamente dieci di manutenzione.

[foto archivio governo ucraino]

Da qui, la convinzione che il salto di qualità nel supporto fornito agli ucraini non sortirà in tempi brevi gli effetti auspicati. Ecco, allora, che una soluzione al conflitto non potrà provenire dalle operazioni militari, di cui si dovrà comunque tener conto, ma dal negoziato serio e concreto tra la parti in causa. Zelensky pone le sue ormai note 10 condizioni per la pace. Tra queste, fatta salva una verosimile condivisione da parte russa sulla «sicurezza da radiazioni nucleari, energetica e alimentare», sul «rilascio dei prigionieri e dei deportati» (in tal caso, con minore propensione russa), vi sono alcuni punti sui quali sarà impossibile trovare un accordo: «ritiro delle truppe russe» e «ripristino dell’integrità territoriale del 2014» (compresa la restituzione della Crimea). Di fatto, verrebbe negata persino una qualsiasi concessione di autonomia alle province del Donbass, qualora tornassero sotto autorità ucraina. Ma il ritiro militare dai territori attualmente occupati significherebbe per i russi il fallimento totale dell’intera operazione speciale. Con riguardo, poi, alla Crimea, Medvedev, numero due del Cremlino, ha anche di recente affermato che il suo ipotetica ritorno sotto sovranità ucraina aprirebbe all’opzione nucleare. Minacce, sicuramente. Ma chiudere in un angolo un orso ferito significa provocarne la reazione estrema. Peraltro, nella dottrina nucleare russa, l’impiego dell’arma atomica è prevista solo quando è certo che il nemico vi abbia fatto per primo ricorso contro il territorio della Federazione Russa o contro suoi alleati.

[foto archivio governo ucraino]

Ma va detto pure che, nella Storia, non si ha memoria di un Paese che abbia mai siglato un trattato di pace ritirando il proprio esercito da un vasto territorio occupato militarmente e stabilmente. In altri termini, il conflitto è destinato a durare ancora a lungo. Occorrerà allora guardare pragmaticamente ad una soluzione che finisca per scontentare un po’ tutti, tenuto conto che, alla radice dell’attuale crisi russo-ucraina, vi sono responsabilità politiche da ripartire tra ambo le parti. Agitare, da parte di Kiev, la prospettiva di entrare, a conflitto terminato, nella UE e nella NATO è un altro punto considerato irricevibile da parte di Mosca, cui risulterebbe più accettabile una prospettiva di neutralità dell’Ucraina, pur con un’appartenenza all’UE. Come pure riportare la Crimea nella discussione è un altro aspetto fuori da ogni prospettiva di negoziato. È evidente che la partita si dovrà giocare quindi sulle province ucraine, filorusse, del Donetsk e del Lugansk, annesse arbitrariamente alla Russia col referendum farsa di fine settembre scorso insieme alle oblast di Kherson e di Zaporizzja. Un’ulteriore partizione di tali province, lasciando alla Russia le aree orientali, più prossime al proprio confine, potrebbe rappresentare un primo compromesso al quale puntare.

[foto archivio governo russo]

Ecco, allora, diventare fondamentale l’apporto di un arbitrato internazionale che non potrà che essere messo nelle mani delle maggiori potenze mondiali, USA e Cina, quantunque gli Stati Uniti sembrino perseguire una sconfitta russa sul campo mentre Pechino vede nel conflitto in corso un ostacolo alla crescita economica globale e, quindi, anche a quella propria. Difficile ipotizzare al momento un’iniziativa di dialogo assunta da attori diversi. L’Europa non ne ha la forza. I Paesi membri dell’Unione Europea, pur nel generale e totale appoggio all’Ucraina, manifestano diversi livelli di assertività diplomatica. Con un’Italia che appare uscire solo oggi da un lungo periodo di irrilevanza in politica estera, con i Paesi dell’ex-Patto di Varsavia -Paesi baltici e Polonia, su tutti – ad assumere posture interventiste. Con una Francia che ha sempre tenuto un canale aperto di dialogo col Cremlino, ma oltremodo piegata su sé stessa e sui suoi interessi nazionali. Con una Germania scettica nell’aprirsi incondizionatamente al supporto militare a favore dell’Ucraina, anche per evitare un maggiore coinvolgimento nel conflitto, e che dalla Russia continua ad ogni modo a ricevere il 20% del proprio fabbisogno di gas. Infine, Turchia ed India, con Istanbul – oggi alle prese col terribile terremoto del 6 febbraio e con le imminenti elezioni presidenziali, due aspetti di possibile destabilizzazione interna – che non ha aderito alle sanzioni contro Mosca, ma che, pur trattandosi di Paese membro dell’Alleanza Atlantica, mantiene con Mosca ottime relazioni, sia politiche che commerciali (il 30% del fabbisogno ortofrutticolo russo proviene dalla Turchia e, almeno sino al febbraio 2022, oltre il 50% dei turisti in visita nel Paese della Porta del Sole erano di nazionalità russa). Non di meno, fornisce all’Ucraina i temutissimi droni Bayraktar, oltre ad aver promosso l’estate scorsa lo sblocco delle esportazioni di grano ucraino. Con un’India che non ha condannato l’invasione russa e che, come la Cina, dall’inizio del conflitto, ha raddoppiato le importazioni di materie prime energetiche da Mosca rispetto al 2021, per un totale di 9 miliardi di dollari. L’unica vera alternativa alla guerra in atto è quindi il negoziato. L’unica strada per arrivare alla pace è il dialogo. Ma è necessario che Kiev smetta di formulare pretese da vincitore, mentre sul campo lo stallo regna sovrano, e che Mosca prenda atto del fallimento dell’iniziativa militare. Posture politiche difficili per ora da ipotizzare e, ancor più, da vedere attuate.

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