Professor Emanuele Felice, la scorsa notte il primo attracco in Abruzzo di una nave che trasportava migranti. È giusta la ridistribuzione voluta dal governo Meloni?
«Mi sembra una decisione folle. Parliamo di persone che viaggiano in nave. Le navi dovrebbero sbarcare nei porti più vicini e poi le persone dovrebbero essere redistribuite nel modo più comodo ed economico per tutti, cioè in aereo o via terra (non certo via mare). Abbiamo qui un esempio di come la vita delle persone venga usata per fini di propaganda becera. Quello delle migrazioni è un tema grande e complesso, però questa idea di considerare i migranti solo come un problema, o peggio come un fardello o una calamità, deve essere respinta con forza. I migranti sono innanzitutto persone, che poi vanno integrate; integrare comporta delle difficoltà, certo, ma anche delle opportunità. Alcune nazioni più prospere e più pacifiche, e con meno criminalità al mondo, si fondano proprio sull’immigrazione: il Canada, ad esempio, che fa 40 milioni di abitanti ed è in assoluto la nazione con più immigrati, e registra tassi di criminalità bassissimi; a differenza di altre che nazioni che i migranti non li integrano e li spingono così nell’area della criminalità. Ora, il primo passo per integrarli è trattarli come persone, non come merce per lucrare voti o creare problemi ai sindaci delle amministrazioni di un altro color. Ma è anche un’insensatezza sul piano economico, perché ovviamente è molto più complicato redistribuirli via nave. Una delle cose che apprezzo di Elly Schlein, è che lei dice queste cose con molta più nettezza di quanto non si sia fatto in passato: noi, ad esempio, abbiamo avuto con Minniti un approccio all’immigrazione soprattutto come problema, oltre alle questioni relative al finanziamento della guardia costiera libica senza preoccuparsi del modo terribile in cui i migranti venivano trattati in quel paese, imprigionati e torturati. A quei tempi, nel 2017 e 2018, a criticare con forza quell’approccio anche a sinistra erano in pochi: fra questi i Radicali, alcuni settori del mondo cattolico e, ricordo bene, Elly Schlein».
Dopo essere stato responsabile economico del partito durante la segreteria di Zingaretti, perché ha deciso di candidarsi alle Primarie del Pd e di sostenere Elly Schlein?
«Non ho bisogno di un posto nell’assemblea nazionale, ho già ricoperto un ruolo importante nel partito e mi pare di avere voce nel dibattito pubblico a prescindere dai destini del Pd; infatti ho ritenuto giusto lasciare il posto di capolista al segretario dei Giovani democratici, bravissimo. Però vorrei dare un messaggio: esiste un Pd diverso, un modo diverso di stare a sinistra, un modo di fare politica disinteressato, per passione; quindi mi sono messo a disposizione, peraltro in una posizione di lista non facile. È un impegno per ideali di un certo tipo, per il bene comune, senza un immediato tornaconto personale. E su questo mi trovo concorde con ciò che Elly Schlein dice da tempo, abbiamo fatto le stesse battaglie: sono le battaglie per una sinistra coerente con i suoi valori e penso che le difficoltà che viviamo siano proprio dovute al fatto che la sinistra in questi anni ha smarrito sia i suoi valori, sia la credibilità delle persone che quei valori avrebbero dovuto incarnare. Invece in Elly quei valori li ritrovo».
E in Bonaccini no?
«Bonaccini è un bravo amministratore come ce ne sono tanti nel nostro partito, per fortuna, e come lo è anche Elly. Peraltro l’Emilia Romagna è una regione bene amministrata da tempo, da ben prima che arrivasse lui. Il punto è che come segretario del Pd Bonaccini non ha un messaggio chiaro: il suo messaggio è il partito degli amministratori. Ma cosa vuole fare in concreto? Noi dobbiamo innanzitutto dire come vogliamo che sia l’Italia, come vogliamo che sia il mondo. Quali sono le nostre idee sulla conversione ecologica, sulla dignità del lavoro, sui migranti, sul welfare, sulle disuguaglianze regionali? Bonaccini ad esempio è stato fra i primi a favore dell’autonomia differenziata, ora ha cambiato idea per avere l’appoggio dei governatori del Sud. E anche sulla necessità di un impegno forte per la conversione ecologica è stato sempre molto tiepido (è un eufemismo), a differenza di Elly. Quanto alla dignità del lavoro, lui e gran parte di coloro che lo sostengono sono stati i protagonisti della stagione renziana, incentrata sul jobs act e il mantra della flessibilità.
Io credo invece che la buona classe di amministratori, che per fortuna abbiamo, e fra cui beninteso ci sono anche sostenitori di Elly Schlein (si pensi al sindaco di Bologna), debba essere sorretta e orientata da un chiaro pensiero progressista. A che serve altrimenti il Pd? Perché impegnarsi in un partito se poi in quel partito le idee non contano e contano solo gli amministratori? Solo per avere posti e potere? Questa è la radice della malapolitica, a ben vedere, una degenerazione che noi dobbiamo contrastare con forza. Viviamo una fase drammatica della storia umana, sia per la crisi climatica, sia per il rischio della terza guerra mondiale, sia per la crisi delle democrazie occidentali, dove abbiamo la metà delle persone che non va al voto, sfiduciata dalle disuguaglianze crescenti e da una politica senza orizzonti. Quindi non possiamo dire: amministriamo l’esistente. Non basta. Ci vogliono un pensiero, una visione, delle idee, che sono la premessa per avere poi capacità e passione».
Il Pd è un partito che sa solo cambiare segretario senza riuscire a individuare una base di valori comuni e condivisi?
«Il problema del Pd è una fusione di queste idee non c’è mai stata. Io ho scritto un libro, La conquista dei diritti, per spiegare come il liberalismo, il socialismo e l’ecologismo possano completarsi a vicenda. Questa è la visione che dovrebbe avere il Partito democratico: i diritti civili si completano nei diritti sociali, oggi anche nella dimensione ambientale, e in questo modo pongono anche nuovi doveri, spingendo la politica democratica a intervenire per orientare lo sviluppo tecnologico e il capitalismo nella direzione dell’emancipazione umana e della salvezza dell’ambiente, anziché in quella dell’oppressione o della distruzione. Sono rimasto colpito da come è stata gestita la vicenda del nuovo manifesto dei valori. Abbiamo stilato un manifesto adeguato a un partito socialdemocratico del XXI secolo, ambientalista e progressista, in un grande paese avanzato quale deve essere l’Italia, un manifesto che vuole tenere insieme il mercato e l’intervento pubblico proprio nella direzione che le dicevo. In sostanza, questa buona sintesi è stata opera di Enrico Letta, che infatti non è certo un pericoloso estremista. Ebbene, dall’area di Bonaccini contro questo manifesto dei valori, che è il normalissimo manifesto di un partito di centrosinistra europeo, è stata fatta una guerra preventiva la quale alla fine ha portato sì all’approvazione del nuovo testo, ma lasciando in vigore anche il vecchio. Noi quindi oggi siamo un partito che ha due manifesti dei valori, i quali in alcuni punti dicono cose diverse perché il precedente è stato stilato in un’altra epoca, prima della crisi del 2008, all’apice della narrazione neo-liberale quando molti anche a sinistra pensavano che bisognava limitarsi a lasciar fare il mercato. In Bonaccini non vedo sciolto questo nodo, perché nell’area ampia che fa riferimento a lui c’è di tutto, e il grosso è costituito dagli ex renziani, cioè da coloro che in questi hanno fatto più male al Pd in nome di una visione ormai ampiamente superata».
La sconfitta elettorale del Pd è stata una sconfitta solitaria. A chi dovrà rivolgersi il nuovo partito, a Conte o a Calenda?
«In teoria il Pd può allearsi sia con gli uni che con gli altri. Il punto però è che Calenda e Conte sono inconciliabili. Sono errori che sicuramente ha commesso Letta, ma li ha commessi tutto il gruppo dirigente, compreso Bonaccini che apoggiava tutte quelle scelte. Stare con tutti e due è impossibile, perché si fanno la guerra tra di loro, soprattutto per il modo in cui Calenda si pone avendo preso, fin dall’inizio, i 5 Stelle come suoi principali avversari; e poi non dimentichiamo che è stato Renzi a far cadere il governo in cui stava insieme ai 5 Stelle e al Pd. Chiariamo poi che l’ambiguità su queste scelte è stato certo un errore commesso da Letta, innanzitutto, ma con il pieno appoggio di Stefano Bonaccini, che era parte a tutti gli effetti del gruppo dirigente e, comunque, era assolutamente d’accordo; e a differenza di Elly Schlein, lei sì davvero esterna, a tutti gli effetti».
Ora, io penso che la strada naturale, anche per contrastare quello che il governo Meloni sta facendo sui temi sociali e ambientali, sia costruire un grande polo progressista, a partire dall’alleanza con il Movimento 5 Stelle e con tutta la sinistra diffusa in Italia che in queste elezioni si è astenuta. Questo polo progressista già oggi si può attestare intorno al 40 per cento, senza considerare gli astenuti, sarebbe quindi competitivo con le destre. Dopodiché i liberaldemocratici più responsabili (verso cui ho grandissimo rispetto, io stesso mi considero un liberale di sinistra, o un socialista liberale), o almeno una parte dei loro elettori potrebbero comprendere che, con l’attuale legge elettorale, dovrebbero allearsi con noi o almeno smetterci di farci la guerra, a meno che non vogliano far vincere le destre. Però pensare di rivolgersi a Conte e Calenda allo stesso modo è un errore, perché sono incompatibili. Noi, che saremmo in teoria compatibili con entrambi, dobbiamo scegliere. Altrimenti finisce di nuovo che non ci alleiamo né con l’uno né con l’altro. Dobbiamo innanzitutto ricostruire una sinistra in Italia e da lì fare al Paese una proposta che sia attrattiva anche per i liberali. Su questo anzi voglio fare un appello a tutta la sinistra diffusa, a tutte le persone che si sentono di sinistra: domenica venite a votare alle primarie e votate Elly Schlein, per ricostruire l’unità della sinistra e, in questo modo, un’alternativa vincente alle destre. Da domani può rinascere la speranza».
Secondo Emanuele Felice, quali dovranno essere i valori del partito di Elly Schlein?
«Innanzitutto l’Europa, l’ambiente, la lotta alle disuguaglianze, la lotta per la dignità del lavoro; e ovviamente i diritti civili, valore che ormai il Pd ha acquisito, anche se non era scontato».
Il Pd non è più il partito dei lavoratori.
«Da un pezzo non lo è più. Un po’ anche per colpa del Pd, che non ha saputo portare avanti una strategia industriale, che non vuol dire assecondare sempre e comunque il mercato. Pensiamo al caso delle auto elettriche: il fatto che dal 2035 in poi non si potranno più produrre è un’indicazione politica, in nome di un obiettivo politico (la salvezza dell’ambiente), che pone vincoli ben precisi al mercato. Il mercato non può fare quello che vuole. Su quello bisogna poi costruire una strategia industriale, che vuol dire investire nei settori più innovativi. Si tratta di un modo di dare dignità al lavoro, perché il lavoro buono ci può essere innanzitutto se hai dei settori ad altra produttività. Se tu sei specializzato nel turismo o nelle industrie a basso valore aggiunto che competono con il Terzo Mondo, anche i salari sono bassi. Invece un Paese avanzato deve investire nei settori ad alta produttività ed è lì che si crea il lavoro buono. Il lavoro buono non lo creano le leggi, che possono al massimo evitare che vi sia il lavoro cattivo, possono fermare lo sfruttamento. Bisogna incentivare le imprese a fare innovazione, in modo tale che possano pagare salari più dignitosi indicando così una via di riscatto all’Italia tutta».
L’economia della provincia di Chieti si è basata per decenni sul settore metalmeccanico, ormai in crisi, mentre il Vastese costiero non è riuscito a sviluppare adeguatamente il turismo. Quale via d’uscita dal tunnel della crisi?
«Se pensiamo allo sviluppo industriale, la via d’uscita passa innanzitutto per gli investimenti: sia nelle infrastrutture di trasporto che in quelle telematiche. Queste potrebbero unire il Vastese e l’Abruzzo in generale oltre che con il Centro-Nord con la grande area di Roma, consentendo di creare da noi start-up innovative, con costi iniziali più bassi ma ben connesse con i centri più importanti. Inoltre, un’adeguata infrastrutturazione e la fornitura di servizi fondamentali ci rendono più attrattivi anche per i capitali stranieri. Però oggi l’Abruzzo soffre dello stesso problema del Sud tutto, cioè la mancanza di adeguate infrastrutture e connessioni. Anche questo è il risultato di scelte politiche che sono state compiute negli ultimi 25 anni, cioè il fatto che il Sud è stato relativamente abbandonato pensando che fosse sufficiente la locomotiva del Nord a trainare tutto il Paese. Invece qui c’è bisogno di una politica che sappia programmare e investire, a partire dalle infrastrutture fondamentali senza le quali è molto difficile operare. Le nuove tecnologie danno grandi opportunità all’Abruzzo: l’industria telematica e le energie rinnovabili permettono un tessuto imprenditoriale non più concentrato ma diffuso, distribuito sul territorio. E, tolta l’area di Chieti-Pescara, l’Abruzzo è una regione policentrica, a insediamenti molto diffusi: a partire proprio dal Vastese. Il nostro territorio, ma anche l’Aquilano, il Teramano, si caratterizza per una molteplicità di insediamenti che, se adeguatamente serviti, oggi possono sviluppare benissimo esperienze imprenditoriali di successo».
Ovviamente non sono del pd e quindinon andro a votare, ma anche perché non credo sia questa la via per selezionare la classe dirigente di un partito che si definisce di sinistra e continuando cosí le sezioni e la partecipazione alla vita politica resterà virtuale. Però è utile sapere, grazie a Lele Felice, che c’è qualcuno che non ha fatto del mercato il tabù assoluto delle relazioni umane. Certo non andro, per le ragioni dette ad esprimere il mio voto, come farà la pasionaria Rosi Bindi, ma credo che le ragioni della ragazza siano da sostenere affinché diventi chiaro la collocazione sociale di questo partito.