Sulle carte d’identità dei minorenni è illegittimo pretendere di indicare sempre un padre e una madre anche se un bambino ha due papà o due mamme. La sentenza che demolisce una norma del decreto Salvini scaturisce da un’azione legale intentata da un avvocato di Vasto.
È Vincenzo Miri, vastese di nascita, rimasto legato alla sua città d’origine anche dopo aver compiuto i suoi studi universitari a Roma, dove esercita la professione forense occupandosi di diritti civili. Dal 2014, infatti, Miri è socio di Rete Lenford, associazione che si occupa di questioni Lgbt. Dal 2020 ne è presidente. «È nata – spiega – proprio perché, di fronte a quelle che riteniamo discriminazioni, agiamo in giudizio e cerchiamo di ottenere in tribunale quei diritti che spesso la politica non riconosce. Mi occupo da anni di famiglie composte da due mamme o due papà». Così, su iniziativa di Rete Lenford e Famiglie arcobaleno, è nato il percorso giudiziario che ha portato in questi giorni alla sentenza divenuta un caso nazionale.
L’azione legale – «Nel gennaio 2019 – racconta il legale a Chiaro Quotidiano – il ministro Salvini ha emesso un decreto, contrariamente al parere del garante della privacy e di altri organi, disponendo che nelle carte d’identità elettroniche debba esserci sempre scritto “madre” e “padre” per rimarcare, in quel periodo di scontro con le famiglie arcobaleno, che la famiglia fosse sempre composta da padre e madre. Abbiamo impugnato quel decreto ritenendolo illegittimo perché ci sono già famiglie composte da due madri o due padri e riconosciute tali dalla legge. Di conseguenza sarebbe una falsa rappresentazione della realtà quella che verrebbe attestata da un documento di pubblica sicurezza quale la carta d’identità. Per questo abbiamo impugnato il decreto dinanzi al Tar, che ha però declinato la sua giurisdizione perché erano in ballo diritti fondamentali della persona, questioni di competenza del Tribunale civile. Io rappresentavo una coppia di Roma, due mamme. Quando erano andate in Comune a richiedere una carta d’identità, a una di loro era stato chiesto di indicare il suo nome sotto la dicitura “padre”. Da lì è partita la causa. Abbiamo chiesto al Tribunale di disapplicare il decreto e di condannare il ministero dell’Interno a emettere una carta d’identità che fosse conforme alla composizione familiare, quindi non “padre” e “madre”, ma “genitori”. Va chiarito un aspetto importante: nessuno mai ha chiesto la dicitura “genitore 1 e genitore 2”, questa è una falsa narrazione che non corrisponde a verità. Al termine della causa, il Tribunale ha condannato il ministero dell’Interno a emettere una carta d’identità con la dicitura “genitori” e non “padre” e “madre” perché, in quel caso, il padre non c’è. La competenza esclusiva e riservata a emettere le carte d’identità elettroniche è del ministero, mentre il Comune è solo il luogo cui indirizzare la richiesta, ecco perché è stato condannato il ministero e non il Comune. Il decreto crea un problema di identificazione, infatti il giudice ha riconosciuto che non si può scrivere un falso sulla carta d’identità».
«Decreto dettato dall’ideologia» – «È una di quelle cause – commenta l’avvocato Miri – che mai mi sarei aspettato di intentare, perché già stiamo facendo ogni giorno tante battaglie per far sì che lo Stato riconosca diritti alle famiglie composte da due mamme o da due papà. In questo caso, c’era già una sentenza di adozione emessa dal Tribunale per i minorenni di Roma, quindi sembrava paradossale che bisognasse intraprendere una causa per veder realizzato il diritto alla propria identità in un documento personale e familiare qual è la carta d’identità di un minore. Quando l’ideologia, invece delle concrete esigenze, governa l’emissione dei decreti non si può che rispondere con l’azione davanti alla magistratura».