Aiutare le donne che hanno subito violenza non lascia mai indifferenti. L’emotività delle assistite permea nelle emozioni di chi le assiste. Ad accompagnarci in questo breve viaggio dentro una professione in cui «è impossibile rimanere asettici» è la dottoressa Gioia Di Spalatro, psicoterapeuta psicoanalitica del Centro antiviolenza Donnattiva di Vasto.

Qual è il suo ruolo nel Centro antiviolenza e come avviene il primo contatto con le persone che hanno bisogno di voi?
«Mi occupo dei percorsi di sostegno psicologico. Il Centro antiviolenza organizza cammini di uscita dalla violenza. Nella maggior parte dei casi sono le donne a contattarci. Vogliamo che siano loro a chiamarci anche quando la segnalazione arriva da altre autorità. Sia le forze dell’ordine che l’autorità giudiziaria non possono obbligare le vittime a intraprendere questo percorso, ma solo indicarlo. Siamo un porto aperto per le navi in difficoltà. Chi ha bisogno può contattarci chiamando il 1522, numero telefonico attivo h24, un filo diretto con un’operatrice di accoglienza telefonica».
Come inizia il cammino di uscita dalla violenza di genere?
«Le operatrici di prima accoglienza sono formate per capire quali sono il bisogno e l’esigenza della donna. Svolgono una prima analisi della domanda attraverso quattro incontri e la somministrazione del S.a.r.a., un questionario finalizzato a capire il livello di gravità della situazione e il rischio di recidiva . Poi si decide insieme a lei cosa fare. Il secondo step è l’avvio di un percorso psicologico, che dura mediamente cinque-sei mesi con sedute settimanali o quindicinali. Se ne hanno bisogno, possono continuare, ma al termine di questo percorso sono psicologicamente attrezzate per scegliere».
Quante donne aiutate attualmente a riappropriarsi della loro vita?
«Nei tre centri che gestiamo a Vasto, Lanciano e San Salvo abbiamo assistito 248 donne nel periodo 2019-2024. Lo scorso anno sono state 59 le donne che hanno concluso il percorso, mentre 46 lo hanno cominciato. Si tratta soprattutto di giovani donne tra i 35 e i 45 anni, madri di figli minorenni e vittime sempre di violenza psicologica, spesso anche fisica ed economica. Per questo le assistiamo anche in percorsi di inserimento lavorativo».
Perché tante donne finiscono in questa spirale?
«Alla base c’è sempre una forma di dipendenza affettiva che non sempre sfocia nella violenza fisica . La dipendenza non è affetto. L’affetto inizia quando c’è separatezza nella relazione. Nella maggior parte delle storie di cui mi occupo c’è sempre un vissuto familiare arcaico, nella famiglia di origine, un rapporto disfunzionale con il primo oggetto d’amore».
Qual è stato il caso più difficile da affrontare nella sua esperienza decennale?
«Una donna che ho seguito per tre anni. Mi fu presentata come seviziata, aveva dei segni sul corpo che lo testimoniavano. Era stata minacciata con coltello e arma da fuoco. Quando era venuta nel Centro Antiviolenza, aveva avuto appena quattro minuti per chiederci aiuto, perché poi era arrivato il compagno che l’aveva seguita e chiamata mentre stava parlando con noi. Era stata costretta, sotto minaccia, a tornare a casa. Tornò mesi dopo. Un’altra donna è rimasta per trent’anni in una dinamica simile».
Nella sua professione si può mantenere un certo distacco non facendo permeare la propria emotività da tutta la sofferenza con cui si viene a contatto?
«È impossibile rimanere asettici. Come terapeuta, seguo le mie emozioni. Non potrei fare questo lavoro, se non soffrissi. Le mie emozioni sono la cassa di risonanza per aiutare le persone che si rivolgono a me. Non è un lavoro semplice, ma è affascinante lavorare con l’umanità delle persone , con il fattore umano.
Quale consiglio si sente di dare alle donne che subiscono violenze psicologiche o fisiche?
«Consiglio di non aver paura di essere viste e ascoltate. Spesso le donne rimangono stupite dal fatto che ci possa essere qualcuno che le ascolti, che le comprenda, senza giudicarle. Il messaggio che voglio lanciare è: abbiate il coraggio di amarvi, di conoscervi e di cambiare».