Un’apertura straordinaria dopo anni dall’ultima volta. Ieri mattina, a San Buono è stato possibile tornare a visitare l’antico convento di Sant’Antonio grazie al piano di valorizzazione del ministero della Cultura e all’impegno della Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Chieti e Pescara in collaborazione con il Comune (presente ieri anche il sindaco Nicola Zerra).

A guidare i visitatori alla (ri)scoperta del complesso immerso nella natura è stato il funzionario architetto della Soprintendenza, Luca Roselli, che ha percorso le principali tappe della struttura. Il convento si trova in un suggestivo angolo del territorio sanbuonese, tra i boschi, vicino a un ruscello. Qui, a pochi passi, in passato sono stati realizzati anche un piccolo ristorante (oggi in disuso) e un’area pic-nic: un’area dal grande potenziale.

La fondazione e gli anni di attività
La scelta di edificarvi il convento non è casuale. L’architettura mendicante, in questo caso francescana, è caratterizzata dall’armonia con la natura circostante: «Né all’interno del centro abitato, né troppo lontano, distante solo mille passi, con controllo diretto sull’acqua (il torrente scorre sotto i locali che presumibilmente erano destinati alla cucina, ndr) e sui boschi». Questi, un tempo, erano meno estesi per la presenza di numerosi campi coltivati.

La storia del convento ha inizio nel 1575, quando la famiglia Caracciolo (con Giovanni Antonio II, primo principe di San Buono) ne finanzia la fondazione a favore dell’ordine dei frati francescani dell’Osservanza; la struttura sarà poi conclusa, anche con la chiesa (ampliata nel corso degli anni), dal figlio Marino IV. Nella fase iniziale della sua storia, il convento entra a far parte della provincia monastica di Sant’Angelo di Puglia, per poi passare, nel ‘700, a quella osservante di San Ferdinando nel Molise diventando anche casa di formazione per allievi alla vita religiosa e sacerdotale.
Nel 1737 ci sono i primi rifacimenti modifiche e contestualmente viene intitolato a Sant’Antonio; nel 1749 viene edificata la struttura limitrofa. All’interno della chiesa è possibile ammirare la statua del Santo realizzata, nel 1762, da Paolo Di Zinno di Campobasso.
La vita dei frati, in quegli anni, è scandita dai ritmi classici del convento divisi tra la preghiera e il lavoro nei campi.

Una storia travagliata
L’edificio conosce una prima fase di abbandono nel 1811 con le soppressioni napoleoniche e la conseguente cancellazione di tutti gli ordini religiosi e delle confraternite. Sette anni dopo, nel 1818, c’è il ritorno dei frati fino al 1866, quando, in virtù delle leggi eversive, viene nuovamente chiuso per una lungo periodo.
Nel 1936 viene quindi acquistato in un’asta pubblica dai Frati minori osservanti che, l’anno dopo, lo restaurano anche per sanarne i danni del terremoto della Maiella del 1933. Gli interventi più invasivi, che ne modificano l’assetto originario, però, vengono effettuati tra il 1952 e il 1958 dal Genio civile per i danneggiamenti della Seconda guerra mondiale e nel 1986 dalla Comunità montana per realizzarvi un ostello della gioventù e il Museo per l’arte e l’archeologia del Vastese al primo piano. Questo è rimasto attivo fino al 2012, quando, non senza polemiche, venne trasferito nel castello di Monteodorisio.

In anni più recenti, il convento è tornato al centro delle cronache nel 2018: per circa un anno è stato destinato a Cas (Centro d’Accoglienza Straordinario) ospitando oltre 50 utenti, chiuso poi da Nas e Asl a causa di carenze igienico-sanitarie e sovraffollamento.
Oggi, quindi «La struttura si trova in un limbo, non si conosce quella che sarà la funzione futura», come nelle parole di Roselli. I progetti e le idee non mancano, l’auspicio è che questo gioiello dell’architettura mendicante torni a essere un punto di riferimento in una valorizzazione territoriale del grande patrimonio culturale presente.












