«Non crescita numerica, ma sviluppo», con questo appello Everardo Minardi (docente di Sociologia all’Università di Teramo) ha chiuso, il 15 giugno scorso, la presentazione del volume Tufillo, comunità in transizione.
Lo studio, edito dalla Nuova Gutemberg e che si è avvalso di un contributo della Regione, è il frutto di un progetto del Comune di Tufillo e del lavoro di Greta Spineti (ricercatrice dell’Università di Teramo), Aniello Scafetta (agronomo) e Giulia Messere (sociologa).

La ricerca non è un passivo contributo sullo spopolamento, ma si prefigge l’obiettivo di essere un punto di partenza per l’avvio di pratiche virtuose per una nuova appetibilità dei territori e dei centri come Tufillo. I problemi del piccolo centro della vallata del Trigno, 329 residenti, sono quelli comuni a tanti paesi che «non sono stati in grado di trattenere, ma potrebbero essere in grado far tornare a patto che rimuovano alcune barriere», come si legge nello studio di Spineti che ha condotto un’indagine, tramite somministrazione di un questionario, sulla popolazione residente e sugli ex-residenti di Tufillo che oggi vivono altrove.

Una scelta, quella di lasciare il paese d’origine, non legata alla qualità della vita, ma dettata da altri fattori (lavoro in primis) e che nella gran parte non spezza il legame affettivo con questi luoghi. «Guardare al futuro di Tufillo – scrive Spineti – significa anche accettare l’idea di una nuova forma di centralità periferica, in cui il valore non risiede nella quantità, ma nella qualità delle relazioni, nella capacità di generare benessere a partire dalla prossimità e dalla lentezza. La restanza, intesa come atto intenzionale e rigenerativo, può diventare così non solo una risposta al declino, ma una proposta culturale e politica per ripensare il modo in cui abitiamo i territori e costruiamo le nostre comunità: una sfida tutt’altro che semplice, ma non priva di appigli. Essa richiede immaginazione, fiducia e coraggio, ma soprattutto una capacità diffusa di riconoscere nel cambiamento non una minaccia, bensì una possibilità».

Tra gli appigli potrebbe esserci il progetto di recupero degli oliveti abbandonati. È questo il focus di Scafetta che ha messo nero su bianco non solo i numeri di una delle conseguenze dello spopolamento, l’abbandono dei terreni coltivabili, ma anche quelli di un eventuale progetto di comunità per recuperarli. A dare la dimensione del fenomeno, ad esempio, è la superficie olivicola passata in soli dieci anni (2010-2020) da 115 a 57 ettari con una perdita del 46,3%, mentre il numero delle aziende agricole (dal 1982) è sceso da 159 a 66.
Scafetta, quindi individua le possibili azioni da mettere in campo, l’avvio di una cooperativa di comunità, le possibilità di finanziamento, le stime di costi e ricavi, il tempo necessario per rientrare nell’investimento e tutto ciò che ruota intorno a una simile ambizione: vendita di olio, conserve e altri prodotti (altre coltivazioni compatibili, sottoli ecc.) e iniziative collaterali (oleoturismo, Adotta un ulivo ecc.).

«Il recupero degli oliveti abbandonati – le conclusioni di Scafetta – è molto più di una operazione agronomica, è un progetto di rigenerazione territoriale a tutto tondo. I numeri raccontano anche una storia di resilienza, perché l’olivicoltura a Tufillo continua a essere un pilastro fondamentale e questo offre una base solida su cui fondare una strategia. L’87,5% dei proprietari intervistati si è detto favorevole a concedere i terreni in comodato d’uso o in affitto, il 60% degli stakeholder a contribuire attivamente al recupero. Lo studio è un invito a riconsiderare il legame tra agricoltura e comunità e a costruire un modello replicabile di rigenerazione che possa servire in altri territori».

«Non ripopolare il paese, ma contribuire a non farlo morire». È quanto, infine, emerge dalla ricerca di Giulia Messere – insieme a quella di Spineti sarà presentata a settembre nel convegno dell’Associazione Sociologica Europe a Creta – che ha rivolto lo sguardo alla comunità di “neo-rurali” presente a Tufillo (anche se tale definizione, a detta degli stessi intervistati, è riduttiva). Si tratta di nuovi residenti che da anni si sono insediati nel territorio scegliendolo dopo numerose e variegate esperienze in tutto il mondo, accomunati da una formazione medio-alta e con un bagaglio di esperienze professionali che vanno dall’ambiente all’agricoltura, passando per cultura, arte, teatro ecc. L’obiettivo dell’indagine è l’individuazione di una serie di indicatori che restituiscano l’attrattività del territorio.
Il quadro che ne esce può essere definito di «resilienza nella resistenza dei territori a misura di uomo e natura – afferma Messere – Può essere una chiave di lettura rappresentativa dell’attrattività delle aree interne per promuovere specifiche politiche e linee di indirizzo nei paesi dell’entroterra vastese: una possibilità rimessa ai rappresentati istituzionali degli enti locali in sinergia con le realtà indagate. Una dimensione complessiva del vivere dove il ritmo della produzione, dei consumi e delle relazioni segue lo stesso passo di uno stile di vita che ha caratterizzato queste aree per decenni per un futuro meno antropizzato, ma allo stesso tempo consapevolmente e comunitariamente costruito».

Questioni, quelle della restanza e del ritorno, che non possono, infine, prescindere da una nuova percezione dei luoghi come nelle parole del sindaco Marcovecchio – che individua nella percezione negativa del luogo in cui si vive, «il famoso “Qui non c’è niente”», una delle principali cause dello spopolamento – e dei professori Minardi e Nico Bortoletto: «Oggi la costruzione della percezione è il problema più complesso. La sfida è un processo di sussidiarietà orizzontale tra attori differenti che eviti conflitti o sterile competizione capaci di vanificare gli esiti o di condurre allo spreco delle risorse impiegate».
Unanime l’apprezzamento della platea – presenti anche amministratori di realtà vicine – e l’auspicio di una estensione ad altri territori di un lavoro considerato un punto di partenza: «Un sapere costruito dal basso, che possa accompagnare chi abita, governa o semplicemente ama questo paese nel compito più difficile e urgente di tutti: immaginare il futuro come se fosse ancora possibile», come nelle conclusioni di Spineti.