La Casa lavoro di Vasto, dove la pena non finisce mai: l’ergastolo bianco nel reportage di Leone

Persone che hanno già scontato la pena, ma dichiarate socialmente pericolose: una limbo che assomiglia sempre più a un fine pena mai. È l’ergastolo bianco vissuto a Vasto da 50 internati della Casa lavoro di Torre Sinello e raccontato nel reportage del giornalista cupellese Alessandro Leone pubblicato in Fuoriclasse, libro a cura della scuola di giornalismo “Lelio Basso” ed edito da Altrəconomia.

Il volume è stato presentato il 15 aprile nella sala “Papa Giovanni XXIII” di Vasto con le testimonianze di chi vive quotidianamente la realtà della struttura in vari settori. A fare gli onori di casa l’assessora alle Politiche sociali Anna Bosco che nel proprio intervento ha ricordato l’avvio del programma Housing First con un immobile confiscato alla criminalità destinato all’inserimento abitativo stabile di persone senza dimora o in situazioni di disagio cronico.

E proprio l’assenza di una fissa dimora rappresenta una delle cause di questo ergastolo bianco, com’è definita la misura di sicurezza da chi la subisce, che non permette agli internati – termine usato per distinguerli dai “detenuti” del regime carcerario classico – né di lasciare la struttura né di sapere quando lo potranno fare anche dopo aver scontato la pena.

La casa lavoro è una misura di sicurezza introdotta nel 1930, nel Codice Rocco, che prevede il lavoro come strumento di rieducazione e reinserimento sociale. Questo nelle intenzioni, nella realtà, si traduce in una detenzione indefinita: è una misura destinata a persone socialmente pericolose, «che si applica a chi ha già scontato la pena, persone “imputabili”». La struttura vastese è stata nel 1987 e convertita in Casa lavoro nel 2013, oggi è l’unica in Italia a essere usata quasi interamente a tale scopo (è presente anche la sezione circondariale).

Oggi vi convivono 50 persone, soggetti molto diversi tra loro che si trovano nello stesso posto per ragioni anch’esse molto differenti: «appartenenti alla criminalità organizzata, chi compie in modo reiterato lo stesso reato, chi ha violato la libertà vigilata e pazienti psichiatrici che dovrebbero essere ospitati in strutture diverse». La misura di sicurezza si applica e viene prorogata «per motivi indipendenti dalla condotta – le parole di Leone – l’indisponibilità di una residenza fissa per la persona che sta uscendo, nessun familiare che possa farsene carico, motivi ambientali (ad esempio il pericolo di riavvicinamento a pregiudicati o ambienti criminali nella propria zona di provenienza)». Così, la misura viene prorogata senza una fine certa.

Dentro la Casa lavoro

In Italia sono circa 300 le persone in questa condizione distribuite tra Vasto, Aversa e Castelfranco Emilia. L’altra grande criticità, sottolineata da Doralice Di Fabio, responsabile dell’area sanitaria che conta 6 medici e 8 infermieri, è la presenza di pazienti psichiatrici che – dopo la chiusura nel 2015 ospedali psichiatrici giudiziari – dovrebbero essere ricoverati nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) oggi già al limite della capienza con 700 posti in tutta Italia e ben 675 persone in lista d’attesa.
Così, nella struttura che dovrebbe rieducare grazie al lavoro è presente anche chi è inabile al lavoro, un paradosso vissuto a Vasto da 12 internati con il 100% di invalidità. «Anche chi non è paziente psichiatrico rischia di diventarlo a causa della lunga detenzione, sviluppa patologie o le accentua. La promiscuità aumenta la possibilità di reclutamento da parte di esponenti della criminalità organizzata verso soggetti fragili».
Spesso mancano i fondi necessari e oggi la sartoria occupa 10 persone invece di 30, nelle serre lavorano solo un internato e un detenuto e per la birreria c’è un avviso pubblico per la sua gestione.

Il lavoro di Leone si è concluso prima della scomparsa della direttrice della Casa lavoro Giuseppina Ruggero alla quale è stato tributato un ricordo. La reggente è Maria Lucia Avantaggiato che non ha usato mezzi termini: «Oggi questa misura di sicurezza è disumana, prossima alla tortura. Il socialmente pericoloso non finisce mai e la vera uscita da questo regime è la morte. Uno stato civile non lo può accettare».

In questo scenario c’è la grande umanità delle persone che a vario titolo operano nella struttura, come ha sottolineato Giuseppina Rossi, funzionaria giuridico pedagogica: «Se la pericolosità sociale è una condizione sanitaria, la soluzione è la cura. Queste persone vanno accompagnate al reinserimento, per questo ciò che facciamo all’interno rende migliore tutta la comunità. Ci sono rapporti umani molto stretti e intensi, il valore delle relazioni è molto alto e fondamentali sono le attività musicali, culturali ecc. che si riescono a svolgere grazie alle associazioni del territorio. La nostra forza è nella collaborazione tra le varie aree».
Un concetto ribadito anche da Anna Uras, ispettrice di polizia penitenziaria, settore che, come noto, va a avanti tra grandi difficoltà, in primis la carenza cronica di personale (stando alle indicazioni del dipartimento di Amministrazione penitenziaria mancano ancora 30 agenti per raggiungere le 99 unità previste).

Dentro la Casa lavoro

Oggi una possibilità, seppur limitata per tutti coloro che vivono tale situazione, è offerta dalla Fattoria “Vita Felice” di don Silvio Santovito a Casalbordino. È una realtà grazie alla quale tante persone hanno abbattuto il muro del pregiudizio nei confronti di chi arriva dalla Casa lavoro come Salvatore Cinquegrana, ex internato che ha portato una breve testimonianza.
«Il tempo della carcerazione – ha detto don Silvio, che è anche cappellano della struttura – dovrebbe essere usato dalle istituzioni per dirci se una persona può rientrare nella società e questo non avviene. Alzare l’attenzione su questo tema significa aumentare la sensibilità verso queste persone superando pregiudizi e timori. Se riusciamo a fare della Casa lavoro un’occasione di rilancio abbiamo vinto tutti».

Al centro, Doralice Di Fabio

A concludere gli interventi la direttrice della Scuola di giornalismo “Lelio Basso”, Marina Forti, che ha messo al centro il ruolo del giornalismo. Il libro è stato pubblicato in occasione del ventennale della scuola ed è stato dedicato al tema dell’uguaglianza con otto storie inedite di altrettanti ex studenti: «Questo reportage ci fa conoscere i volti delle persone che vivono e operano dentro la Casa lavoro. Quando un giornalista riesce a portare al pubblico questioni come questa, significa che ha fatto bene il proprio lavoro».

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