Alessandra Tucci, ventenne studentessa di Vasto, ha vinto nel settembre 2023 il Premio speciale per la sostenibilità sociale e ambientale al prestigioso concorso letterario Campiello Giovani [LEGGI]. Oggi, nella Giornata internazionale della donna, scrive per Chiaro Quotidiano una riflessione profonda che abbraccia questa ricorrenza e i pregiudizi sociali che accompagnano la vita delle donne. Lo fa con l’intensità della sua scrittura diretta e incisiva.
Lo so, anche i corpi dei maschi crescono e invecchiano. Lo scrivo subito, telegrafico. Perché quando si parla di donne si fa presto a credere allo scenario fasullo di una lotta tra sessi, dove l’uno toglie all’altro sesso. Non è così ma certamente c’è una profonda differenza, in termini di implicazioni psicologiche e conseguenze sociali, tra lo sviluppo di un uomo e quello di una donna.
Comincio: ho incontrato la vergogna per la prima volta a dodici anni. Questa l’età nella quale mi accorsi di dover coprire e non più esibire. Stai attenta e sii matura. Le femmine crescono prima, dicevano. La pubertà come una fioritura del corpo, la piena realizzazione della specie e contemporaneamente l’inizio della lotta di cui ogni giorno siamo protagoniste. La bambina non è ancora desiderabile ed è libera di rotolarsi al mare, di insabbiarsi e il suo costume è come quello degli amici maschi. La femmina sociale non nasce il giorno che viene data alla luce, bensì quando il costume diventa un bikini, la gonna può avere diverse lunghezze e per lei la strada, di notte, si fa pericolosa. In tante raccontano di aver preso consapevolezza del loro nuovo corpo quando sul petto si iniziavano a formare due piccole colline, lisce e vergognose. I due seni sono in effetti un segno e un marchio evidente del nostro sviluppo.
Tuttavia a dodici anni e in quelli successivi a me turbavano le mani. In pochi ci fanno caso, ma durante la pubertà si ingrossano notevolmente e a guardarle così sproporzionate al termine degli arti, quasi come se non mi appartenessero, segni indiscutibili di quella metamorfosi che apprestava a compiersi, provavo ribrezzo. Il corpo le seguì negli anni a venire e quando non vidi più alcuna sproporzione pensai: non si torna più indietro, non sei più una bambina. Eppure le mani non si coprono mai, stanno sempre fuori e servono a fare tutto, sia il bene che il male. Libere come quelle degli uomini, ribelli. Mi piace la mano, che non a caso si declina al femminile. Mi piace pensare che sia un prodotto tutto nostro.
I maschi crescendo in un mondo fabbricato per loro si fanno sicuri e più vigorosi e per la società dev’essere così per forza, perché ci guidino e ci salvino (come se noi fossimo cieche e sprovvedute per natura). Il corpo di donna non è mai solo suo, anzi lo possiede come ultima di una lunga lista e solo perché lo porta, perché da questo è avvolta e perché in fondo, è lei che può sentirci sotto il dolore dei pugni, osservare sopra il viola delle ecchimosi. Fortunatamente per molte c’è la dolcezza delle carezze, l’aria a contatto con la pelle. Ma non per tutte e allora parlare di noi avrà un senso fino al giorno in cui nessuna si ritroverà sommersa e strappata via, come è successo recentemente più volte e succede in svariate forme ogni giorno.
Il corpo di donna è prima degli uomini che lo guardano, della società che lo sottopone a standard inarrivabili, di chi lo giudica, del bambino che può far nascere e solo dopo è suo. E se non riesce a procreare allora è il corpo a metà di una donna a metà. Si configura una strana sovrapposizione tra i pensieri e le azioni e l’involucro corporeo che li custodisce e li realizza. Così la donna non è altro che la sua immagine e non ha più lo stesso valore se ingrassa, se invecchia. Come se agli uomini fosse concesso farsi vecchi e al contrario per le donne si trattasse di una colpa e di una nuova vergogna (certamente più subdola di quella provata da bambine). Così, nella società, lei sfiorisce e viene messa nella posizione di dover accettare di essere sostituibile e l’uomo invece? Diventa affascinante, dicono. Lei non piace più e viene ingabbiata unicamente nei ruoli asessuati di madre over, nonna e similari. Il nostro corpo però, così complicato e mutevole, ci tocca amarlo e proteggerlo, perché ci accompagni verso quella rivoluzione interiore e quel travaglio personale al termine dei quali rinasciamo libere e mai remissive. É come un gioco sottile, che non si esaurisce mai.
Le donne devono imparare a galleggiare nel mare di violenza e discriminazione che le circonda e ad affiorare come continenti nel globo terrestre. Raggiungono l’autonomia e l’indipendenza economica. Recuperano il divario sociale, corrono più veloce, parlano quando vogliono e mai hanno paura di un rifiuto o di uno scontro. Io le chiamo donne emerse. Che tutte possano esserlo, in una lotta continua, che dura tutta la vita. Oggi, giornata internazionale dei diritti delle donne (e non festa della donna, quale festa?) l’eco delle parole si fa più grande, perché in fondo questa ricorrenza non è altro che una grande cassa di risonanza. Ma domani queste parole saranno valide ancora e lo stesso dopodomani e tra un mese e così via. Non è una festa, nella quale gli uomini offrono doni e fiori gialli ai loro angeli del focolare 2.0, perché sono belle, amorevoli, feconde eccetera e la sera gruppi di donne escono per una cena, come se in tutti gli altri giorni dell’anno fosse loro meno concesso. Ancora, come si può chiamarla “festa” davanti all’ evidente disparità di genere che subiamo e alla violenza di genere, di cui migliaia di donne sono vittime? Che questa sia allora una giornata di riflessione e di unione, simbolo di un progetto di emancipazione che nel quotidiano deve realizzarsi e non un giorno all’anno. Altrimenti il risultato sarà solo il consumismo feroce, figlio del marketing emozionale e nel frattempo il divario uomo/donna si allarga.
Alessandra Tucci