Due giorni fa la scomparsa, a 92 anni, del grande architetto Paolo Portoghesi. Il suo progetto di Centro servizi culturali (ora Agenzia per la promozione culturale) a Vasto e le successive vicende qui ci vengono raccontate dal professor Luigi Murolo.
Correva l’anno 1970 quando l’architetto Paolo Portoghesi rassegnava al committente (Regione Abruzzo) il progetto del Centro Servizi Culturali di Vasto. Un progetto – va detto – contemplato nel catalogo dei suoi lavori. Che per quanto lo si voglia cercare tra quelli realizzati, di fatto non lo si incontrerà mai. Non perché non sia stato concretato, ma per il semplice fatto che da lui è stato successivamente rifiutato. Valutata, dunque, non come opera sua. A conti fatti, sarebbero occorsi ben 13 anni – l’anno era il 1983 – prima che la struttura trovasse la sua figurazione. E proprio in quell’istante, ne avrebbe misconosciuta la paternità.
La ragione è semplice. L’edificio era stato concepito per essere interamente visibile dall’esterno, messo in piano con via Madonna dell’Asilo e con l’ingresso in leggera pendenza su via Michetti verso l’alto per renderne plastica la monumentalità. Al contrario, per decisione assunta dai tecnici del Comune, la struttura sarebbe stata infossata sul piano di via Michetti, obliterandone al pubblico la visione complessiva.
Ora, stando al progetto, pubblicato sulla più importante rivista italiana di architettura, «Casabella» (di cui non trovo più il numero, trovandomi purtroppo a parlare con una memoria sempre più labile e vaga), l’impianto si sviluppava su due corpi affrontati, entrambi semicircolari su di un lato, congiunti da corridoio in fabbrica. Al centro, una torre circolare su due piani con due teatri: uno interno, l’altro, l’altro esterno. Un’aerofotografia da satellite rintracciabile su google maps, ne rende chiara la pianta. Ancora un aspetto va sottolineato. Il complesso non nasce come semplice Agenzia di Promozione Culturale, ma come Centro di Servizi Culturali. Vale a dire, come luogo destinato a ospitare tutte attività culturali di cui abbisognava la città.
In quegli anni ho avuto un acceso dibattito con i miei amici architetti ancora interessati alle esperienze costruttive maturate su basi di movimenti di idee. Nel caso specifico, il «postmoderno» di cui Portoghesi è stato grande interprete. Soprattutto, nella citazione del classico che ne costituiva il fondamento. Aveva senso? Io ne ero convinto a una condizione. Che la soluzione formale rispondesse a criteri a criteri di organizzazione dello spazio. Dal mio punto di vista, la «torre» cui ho già accennato era di una genialità unica. Un doppio teatro a piani sovrapposti che rispondeva a due funzioni diverse. Nel piano terra, un teatro dalla morfologia classica: cavea, orchestra, scena. Un organismo destinato a rappresentazioni teatrali, musicali e auditorium. Nel piano superiore (all’aperto) una vera e propria «arena» con cavea, orchestra e «porta dei leoni» destinata a accogliere spettacoli senza scena. Come si può notare, una soluzione architettonica unica per due diverse arti performative. Ch’io ricordi (ma posso sbagliare), la seconda non è mai stata utilizzata. A dimostrazione di una totale misconoscenza dell’esistente con la perdita di un carico culturale unico. Da questo punto di vista, il gioco formale di linee sinuose e rettilinee (destinate a biblioteche e sala studi) non costituiva affatto un orpello o un belletto, ma sostanza stessa della funzione compositiva della struttura.
Da quel po’ che conosco, non mi pare che ci sia stata una discussione compiuta su quest’opera con dispiacere rifiutata dal suo autore. E anche in questo caso, la ripresa del continuo ritornello sulle sciocchezze irreparabili compiute da amministrazioni pubbliche nella migliore delle ipotesi, pasticcione. «Ad futuram memoriam rei», ritengo che dovrebbe (uso il condizionale) essere d’obbligo ripensare tale episodio. In questo caso si tratterebbe davvero di una riflessione sulla postmodernità. Purtroppo – e mi spiace sottolinearlo –, ancora una volta, saremo costretti ad accontentarci dell’«irrazionale» con cui facciamo i conti tutti i giorni.
Luigi Murolo