Le mafie raccontate agli studenti da chi le ha combattute in prima linea arrestando i capi della cupola di Cosa nostra.
Ex funzionario di polizia e attuale docente all’Università di Teramo, Piernicola Silvis è autore di Capire la mafia, un libro che sintetizza caratteristiche del fenomeno mafioso e modi di agire delle organizzazioni più temibili che si allargano in modo tentacolare in tutta Italia: Sicilia, Calabria, Campania, Puglia, ma anche la malavita romana e veneta. Nord, Centro e Sud Italia, non c’è latitudine che possa dirsi totalmente priva di infiltrazioni mafiose. A Vasto, dove è stato celebrato il primo processo in Abruzzo per 416 bis, Silvis presenta il suo libro davanti alla platea degli studenti dell’Istituto tecnico per l’economia e il turismo Palizzi.
L’incontro nell’aula magna è moderato dal giornalista Giuseppe Ritucci, tra le domande degli studenti e le testimonianze vissute in prima persona da Silvis, che la mafia l’ha toccata con mano. Lui, insieme all’allora capo dell Sco (Servizio centrale operativo), Antonio Manganelli, che poi sarebbe diventato capo della polizia, e ai colleghi che ogni giorno combattevano la criminalità organizzata, contribuì all’arresto di Giuseppe Madonia, numero due di Cosa nostra ai tempi di Totò Riina. Fu il primo boss mafioso a finire in carcere, era il 6 settembre 1992. Erano passati pochi mesi dalle stragi di Capaci, dove il 23 maggio erano morti Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, e via D’Amelio del 19 luglio, quando furono spezzate le vite di Paolo Borsellino e dei cinque poliziotti che lo scortavano. Solo dopo l’assassinio dei due magistrati simbolo la lotta alla mafia fu intensificata. Silvis ricorda «gli arresti: a settembre Piddu Madonia, a gennaio Totò Riina, a marzo Nitto Santapaola. Fu decapitata la commissione provinciale, nota come la cupola di Cosa nostra. Non potevano pensarci un po’ prima? Serve la strage per poter agire? Queste cose le ho dette anche alla Commissione parlamentare antimafia, da cui sono stato sentito cinque volte».
La sua è anche una lezione in cui spiega che non tutte le associazioni criminali sono mafiose. Per essere tali devono avere gli elementi previsti dall’articolo 416 bis del codice penale: per commettere delitti, gli associati usano «il vincolo associativo, la forza dell’intimidazione, la condizione di assoggettamento e l’omerta». È la norma che ha consentito il maxiprocesso di Palermo del 1986 con oltre 400 imputati: «Falcone è stato il primo a mettere in carcere i mafiosi. Col 416 bis è potuto andare oltre, ficcandoli dentro non perché avevano commesso reati, ma per la loro appartenenza all’associazione mafiosa».
Il giorno dell’arresto di Madonia, il 6 settembre 1992, «la mattina, quando sono uscito di casa, ho dato un bacio a mio figlio di tre anni e ho detto: non so se ti rivedo». Un’operazione ad alto rischio, un arresto rocambolesco, finito col boss ammanettato con la faccia a terra: «Madonia tremava».
Silvis dice più di una volta, mentre si rivolge ai ragazzi, che «a differenza di quello che sentiamo dire, la mafia non è stata sconfitta». Oggi l’organizzazione più temibile è la ‘ndrangheta, che «ha accumulato centinaia di miliardi in centinaia di sequestri di persona. Ha comprato cocaina e l’ha rivenduta in tutta Europa attraverso i porti di Gioia Tauro, Anversa, Rotterdam e della Spagna». Montagne di soldi riciclate spesso in strutture turistiche. «Stanno comprando tutto, la Germania è provincia di ‘ndrangheta».