È in crescita una presenza femminile tra il personale di polizia penitenziaria in servizio nella Casa Lavoro di Vasto. Una presenza che rappresenta ormai una consuetudine, certamente – come in tutta Italia – con numeri inferiori rispetto ai colleghi uomini. In una struttura che, ospitando internati e detenuti, prevede per le agenti ruoli e competenze specifici – con una minore presenza nei reparti di internamento e detenzione – , quello che è immutato è lo spirito di appartenenza al corpo e le forti motivazioni alla base di una scelta professionale e di vita.
Negli ultimi due anni nella caserma dell’istituto di Torre Sinello – dove sono ancora tante le carenze di personale, come ormai noto dalle continue sollecitazioni a riguardo -sono arrivate anche due giovani agenti pugliesi. Lucia Di Feo, 32 anni di Trani, è entrata nel corpo nel 2021. Dopo il corso alla scuola di Parma, dal maggio 2022 è in servizio a Vasto. Lucia Iaconeta, 25 anni, di Mattinata. Per due anni ha prestato servizio nella guardia costiera, poi è entrata nella polizia penitenziaria e, dal giugno 2021, è a Vasto.
Perché si sceglie di entrare nella polizia penitenziaria?
Lucia Di Feo – Negli anni scorsi ho provato diversi concorsi. Frequentando gli studi universitari in giurisprudenza, ho seguito un seminario sull’amministrazione penitenziaria e ho scoperto davvero un mondo che ignoravo. Questo lavoro non è molto pubblicizzato. Ho avuto modo di scoprire, oltre alle caratteristiche del servizio, anche la figura umana dell’operatore di polizia penitenziaria. Questo l’ho ritrovato una volta arrivata qui. Siamo a contatto 6-8 ore con gli internati, impariamo a conoscerli non solo in base ai reati o ai motivi per cui sono qui ma anche attraverso le loro fragilità, il loro vissuto, il loro legame con le famiglie.
Lucia Iaconeta – Mi è sempre piaciuto indossare una divisa. Ho iniziato con la guardia costiera e poi ho scoperto che la mia passione era rivolta ad un corpo di polizia, iniziando a scoprire il mondo del carcere. Solitamente spaventa, da fuori viene visto come un ambiente innaturale. Parlandone con diversi amici che fanno già questo lavoro ho iniziato a guardarlo con interesse. Le persone tendono a scoraggiarti, dicendoti che “è un brutto ambiente”, dall’esterno viene visto male. Ma c’è l’opportunità di imparare tanto, il nostro lavoro consiste non solo nel garantire l’ordine e la sicurezza negli istituti ma anche di ascoltare, capire i problemi degli internati e dei detenuti.
In un istituto che ospita uomini i ruoli del personale di polizia penitenziaria sono limitati, rispetto a realtà femminile, dove la situazione è invertita. Come affrontate il vostro percorso lavorativo?
LDF – Sin dal mio arrivo ho cercato di trovare la mia strada, anche in considerazione degli studi universitari che sto completando. Prima sono stata all’ufficio colloqui, poi sono entrata all’ufficio matricole. Mi occupo di tutto ciò che riguarda il rapporto tra l’autorità giudiziaria e i detenuti. Ci interfacciamo soprattutto con l’Ufficio di Sorveglianza. È un ruolo in cui, comunque, c’è un costante rapporto con i detenuti.
LI – Inizialmente non sapevo dell’esistenza della Casa Lavoro qui a Vasto. È una realtà difficile ma ci sono tante persone che hanno capito di aver sbagliato ma anche tante che non hanno voglia di migliorare, si lasciano andare. La loro gestione è, per alcuni versi, complicata. Il nostro lavoro, in particolare dei colleghi che operano nelle sezioni, è molto impegnativo. E, a fronte di situazioni difficili da gestire, ci sono anche tanti internati che sanno rispettare il nostro ruolo.
Per chi è recluso in questa struttura voi e gli educatori rappresentate una frontiera comune, siete anche un punto di contatto tra “dentro” e il mondo esterno. Come viene vissuto il rapporto con gli educatori?
LDF – Nel portare avanti il lavoro in un luogo i cui ci sono gli internati è fondamentale la collaborazione tra polizia penitenziaria e educatori. Loro hanno una certa preparazione, hanno quel qualcosa in più. Noi siamo operatori, gli educatori vengono visti in modo diverso. Ma deve esserci assolutamente essere sinergia.
LI – C’è molta complicità, collaborazione, c’è un bel rapporto. L’obiettivo è di formare una squadra. Anche se facciamo parte di due settori diversi, dobbiamo lavorare insieme e dobbiamo essere uniti, coprirci le spalle a vicenda, aiutarci.
Anche se non operate direttamente in sezione avete modo di entrare in contatto con gli internati e detenuti. Come ci si relaziona?
LDF – Alla base c’è un necessario distacco. Noi siamo qui per un motivo, loro per un altro. Ho notato un po’ forse perché siamo donne, un po’ perché siamo giovani, che i detenuti si interfacciano in modo meno aggressivo. Se hanno una problematica tendono più a spiegare perché hanno una certa necessità.
LI – La presenza femminile aiuta molto, abbiamo più facilità nel dialogare. Su certe cose, su determinate spiegazioni, per noi è più facile parlare con più calma. Anche se, per determinate problematiche – e soprattutto gli stranieri – tendono a chiedere l’intervento dei colleghi uomini.
Nel vostro lavoro c’è quotidianamente la possibilità di affrontare eventi critici, situazioni di difficoltà. Come riuscite a non lasciarvi coinvolgere emotivamente da ciò che vivete in servizio?
LDF – Sta alla sensibilità di ognuno. Per mia indole divido le due sfere, personale e lavorativa. Ci sono state giornate pesanti, con eventi critici. Ma, soprattutto se la situazione si è risolta bene, non la porto a casa. E poi, non stando in sezione, vivo meno le problematiche che possono capitare ai colleghi.
LI – Bisogna imparare a separare le due cose. Non portare i problemi personali al lavoro e i problemi del lavoro a casa. C’è un lavoro personale da fare dietro. Ci possono essere delle giornate più impegnative e si tende a ricordare ciò che è successo al lavoro anche fuori, ma, di solito non mi è complicato scindere le due cose.
Come ti vedi nel futuro?
LDF – Qui a Vasto sto bene. Mio marito è carabiniere, ora è in servizio in Calabria ma vorremmo trovare una stabilità qui. Vedo qui una prosecuzione del mio percorso, la scelta che ho fatto è di investire, sia personalmente che professionalmente, qui.
LI – Ero entrata con l’idea del Gom (Gruppo operativo mobile), poi ho preferito una strada tradizionale. Vorrei continuare questa carriera laureandomi e proseguendo anche con concorsi interni.
Guardando al percorso fatto fin qui, alla tua situazione attuale, alla realtà confrontata alle aspettative che avevi, è un percorso professionale che consiglieresti?
LDF – L’ho già fatto. Mio fratello, laureato in giurisprudenza, aveva iniziato la pratica legale ma, ascoltandomi e capendo che questa poteva essere la sua strada, ha fatto il concorso.
LI – Sì, io la trovo un’esperienza formativa e valida, quindi lo consiglierei, così come hanno fatto altri con me.
Voi donne siete ancora numericamente molto inferiori rispetto agli uomini. Come viene vissuto lo spirito di appartenenza al corpo di polizia penitenziaria?
LDF – La gran parte dei colleghi ci ha visto come una ventata di freschezza e anche come un valore aggiunto per quello che abbiamo potuto portare. C’è molta collaborazione. Quando, magari, c’è un problema particolare da risolvere, vengono messe in gioco l’esperienza del collega più anziano e quel quid in più portato da noi.
LI – Come in tanti altri ambiti, spesso, vengono fatti emergere solo gli eventi critici, le brutte situazioni. Purtroppo, ogni giorno si soffre la carenza di personale, i colleghi sono sottoposti a turni lunghi e stressanti. Chi c’è deve coprire tutti i posti di servizio presidiati h24. È una lotta che si sta combattendo tutti insieme. E, forse, c’è meno la tendenza a valorizzare quello che c’è di positivo. Ma, tutti noi, ogni giorno, cerchiamo di fare al meglio il nostro dovere.