Sarebbero andati a Roma a manifestare con mucche e pecore. Lo scopo era far capire al governo Draghi e ai parlamentari che il carburante costa troppo e le aziende agricole sono ormai sull’orlo del fallimento. Ma non potranno manifestare perché la Questura dell’Aquila non li ha autorizzati.
All’iniziativa di Dino Rossi, allevatore di Ofena e portavoce dell’Associazione culturale rurale avevano aderito agricoltori da tutto l’Abruzzo e da molte altre regioni italiane perché «in Italia il gasolio agricolo costa 1,60 euro al litro, quattro volte in più di un litro di latte e tanto quanto un litro di vino sfuso in cantina”. Una situazione insostenibile per migliaia di imprese.
Ma dal questore dell’Aquila, Enrico De Simone, è arrivato un diniego per motivi di ordine pubblico, «ritenuto che la presenza, in ambito cittadino e sulle strade pubbliche, di animali vaganti creerebbe le condizioni per il turbamento del normale traffico veicolare, determinando gravi rischi per la sicurezza pubblica, consistenti altresì nella diminuita o impossibile transitabilità dei mezzi di pubblico soccorso o pronto intervento».
Rossi oggi gli animali sono riconosciuti dalla Costituzione italiana e quindi le nostre vacche hanno lo stesso diritto dei cervi, degli orsi e qualsiasi altra selvaggina che gira indisturbata per le vie di Roma e tutti i giorni mette a repentaglio la vita delle persone. Pertanto le nostre mucche in transumanza avrebbero creato meno disagio di quanto ve ne sia adesso nella capitale, per quanto riguarda il contagio del covid19, posso assicurare che le mucche non sono vettori di virus.
«È davvero sconcertante – commenta Michele Bosco, presidente dell’associazione vastese Terre di Punta Aderci – vedersi negare l’autorizzazione a svolgere una pacifica manifestazione con animali domestici, con tutti i problemi che abbiamo con gli animali selvatici che ci devastano campi e rendono ormai impossibile una normale fruizione della viabilità, con la siccità e con il caro gasolio che ci hanno dato il colpo di grazia. Sono anni che lavoriamo senza il minimo rispetto di una logica aziendale, non riuscendo ad accantonare ammortamenti. Lavoriamo senza poterci munire di una polizza assicurativa che dia un minimo di sicurezza, senza stare tutti i giorni con il patema d’animo per le avversità atmosferiche, senza poter investire in innovazione e formazione. Abbiamo comunque continuato a lavorare perché abbiamo creduto di essere un anello fondamentale di questa società. Ci stiamo accorgendo che ci prendono per i fondelli: di giorno parlano di risorse alimentari, di produrre cibo, di tutelare l’agricoltura, di notte ci massacrano legiferando senza calcolarci minimamente. Le prime a dover chiudere saranno proprio le aziende virtuose, quelle che, come noi, rispettano le stagionalità, non stressano i terreni facendo la rotazione delle colture e un solo raccolto l’anno, non sprecano risorse idriche. I governi si sono abituati al fatto che gli agricoltori preferiscono lavorare piuttosto che protestare».