Ospitiamo con molto piacere la testimonianza di Elisabetta. Polacca, da anni residente a San Salvo, oggi è comprensibilmente preoccupata per il conflitto in Ucraina alle porte della sua terra natia. Per l’occasione, nel suo racconto, ricorda la vita e la quotidianità in Polonia in piena Guerra Fredda.
A volte capita che i fatti che viviamo nel presente ci rimandino al tempo della nostra infanzia. Alle volte è semplicemente un odore, un sapore di un piatto della tua terra di origine riportarti col pensiero ad un tempo tanto diverso da quello dell’oggi. Sei sopraffatta dai ricordi, alle volte, belli o meno che siano, ma sono lì, pronti a riemergere a un minimo accenno.
La mia di infanzia in particolare, essendo polacca, è indissolubilmente legata, oltreché alle cose comuni a tutti i bambini, come un ginocchio sbucciato, una corsa lungo il fiume vicino casa mia, al regime che a quel tempo governava la mia Nazione. Si era in piena Guerra Fredda, l’Europa era divisa in due con la parte ad Est sotto l’influenza russa e benché il partito comunista polacco non fosse tra i più dispostici, la libertà di cui avremmo potuto godere dopo la sua caduta avremmo scoperto avere ben altro sapore.
La libertà spesso la si dà per scontata oggigiorno, ma non è così, non è sempre così.
Ricordo perfettamente i controlli della Milicja (Milizia) ad esempio, una sorta di polizia politica che, senza alcun preavviso, poteva venire a casa a fare delle perquisizioni. Se avessero mai trovato dei dollari statunitensi, si potevano passare guai seri, era una cosa assolutamente proibita.
Come pure lo era non tenere pulito dalle erbacce la porzione prospiciente casa o i macchinari agricoli. Questi erano di proprietà del privato, ma l’acquisto era comunque subordinato ad un permesso da parte del preposto Ufficio Statale. Il sabato, quando non andavamo a scuola era uno dei nostri compiti aiutare i nostri genitori a riordinare la nostra proprietà, tagliare l’erba del prato o togliendo le foglie secche che si accumulavano in autunno, così come d’inverno era obbligatorio tenere sgombri i marciapiedi di fronte casa nostra dalla neve.
La tv non era certa centrale nelle nostre giornate, ma la sera riuscivamo a vederne un po’ quella Nazionale, della vicina (allora) Cecoslovacchia, addirittura quella italiana, delle quali apprezzavo particolarmente i cartoni animati, vista la mia giovane età.
La propaganda ovviamente la faceva da padrona, l’informazione era completamente asservita al Partito, che filtrava qualsiasi notizia con un rigoroso lavoro di censura.
La corruzione in un tale contesto era la regola, molto diffusa. Il mercato nero era molto praticato ed effettivamente era l’unico modo per procurarsi ciò che non bastava tramite i razionamenti. Questi ultimi non erano limitati solo ai generi alimentari, ma anche per procurarsi materiale edilizio, o magari un permesso, un documento in un ufficio.
Ricordo le tessere annonarie, le lunghe file fuori dei negozi per un po’ di pane o un semplice rotolo di carta igienica; ma non perché mancassero i soldi per acquistarli (i miei genitori lavoravano entrambi), ma semplicemente perché, specie negli anni precedenti la caduta del Muro di Berlino, le politiche socio-economiche fallimentari messe in campo dal Governo di allora avevano prodotto una situazione difficilmente sostenibile. La roba che arrivava nei supermercati, era sempre insufficiente ed era destinata a finire velocemente.
Fortunatamente, avevamo un bel pezzo di terra i cui raccolti (specialmente patate e cetrioli, ma anche verze, fagioli e fragole) erano un bel supporto alle nostre esigenze. Era allo stesso Stato però a cui andava destinato una percentuale del raccolto, calcolato in base al numero dei componenti del singolo nucleo familiare.
A casa, le lunghe sere invernali, erano scandite dalle proiezioni di quelle che noi oggi chiameremmo slides, che rappresentavano delle bellissime fiabe lette dalla mamma, mentre mio padre ci passava degli spicchi di mele. Di questi momenti conservo un ricordo veramente caro, mi emoziono molto semplicemente a ripensarci.
Capitava che i vestiti miei delle mie sorelle e di molti miei compagni di classe fossero spesso tutti uguali, perché quando arrivavano nei negozi, la scelta che potevamo operare non era troppo variegata, per usare un eufemismo. La cosa positiva della scuola era la sua obbligatorietà fino al conseguimento del diploma superiore fornendo quindi un livello formativo di tutto rispetto e comunque assicurato. La lingua straniera ufficiale era il russo, lingua che non ho fatto molta fatica a dimenticare, con pochi rimpianti.
La vita poi mi ha portato via dalla Polonia, ho avuto modo di farmi la mia famiglia in Italia, dove tuttora vivo. Ma, come dicevo all’inizio di questo mio racconto, capita di tornare con la mente al passato. I fatti della guerra in Ucraina per mano russa mi addolorano ma non mi stupiscono troppo. La storia della mia Nazione è costellata di eventi tragici connessi al desiderio russo di dominare direttamente o con governi fantoccio i propri vicini.
Nulla di nuovo purtroppo, lo so bene. Quindi mi capirete se sinceramente ho poco stima di un autocrate come Putin, che, invece di pensare al benessere del proprio popolo, distrugge una Nazione sovrana, e manda a morire i propri figli.
È sconcertante per me, avere la guerra al confine della mia terra, vedere i profughi scappare con i soli vestiti addosso, tutto per le conseguenze di una ideologia che ha segnato le loro vite, come pure la mia probabilmente, anche se in modi meno tragici per fortuna.
Chiaramente, in poche righe è difficile rendere una idea precisa dell’infanzia di una persona, ma sicuramente avrete potuto cogliere cosa ha significato l’ingerenza russa quando ho dovuto rapportarmici, mio malgrado.
E potete forse cogliere i motivi per cui i loro vicini fanno a gara per affrancarsi dalle attenzioni russe.
Ela-Elisabetta