Guerra in Ucraina e fonti energetiche: «La mancanza di politiche di settore ci fa essere dipendenti dalle importazioni»

Dopo aver fatto il punto sull’evoluzione della guerra in Ucraina, con il Generale di Corpo d’Armata Massimiliano Del Casale, già Presidente del Centro Alti Studi per la Difesa e responsabile del Centro Militare di Studi Strategici, abbiamo analizzato la situazione legata all’approvvigionamento energetico. «Dobbiamo entrare nell’ordine di idee che, senza ulteriori interventi dell’Unione Europea e del governo, i costi per l’energia lieviteranno sempre più. È una questione di mercato», dice l’alto ufficiale vastese.

Con le sanzioni imposte alla Russia, l’economia mondiale sta sopportando l’ennesima congiuntura negativa in un breve orizzonte temporale. Come giudica le crescenti preoccupazioni per la ridotta disponibilità di risorse energetiche e i costi che d’ora in poi dovremo sostenere per mandare avanti imprese e famiglie?
L’adozione delle sanzioni contro la Russia ha fatto scattare ovunque un vero e proprio allarme per i costi dell’energia. C’era ovviamente da aspettarselo, soprattutto per noi italiani, perché si tratta di un allarme causato anche da una situazione che affonda le proprie radici in politiche (mai) adottate negli anni, che ci hanno privato di qualsiasi forma di autosufficienza e che ora si stanno rivelando in tutta la loro inconsistenza e totale miopia. Secondo Eurostat, l’ente europeo di statistica, in 10 anni, l’Unione Europea ha ridotto del 60% la produzione interna di gas naturale, affidandosi progressivamente alle importazioni. Guardando queste ultime, la dipendenza europea dalla Russia è pari al 41% del proprio fabbisogno. Nel nostro Paese, si sono subito registrati aumenti dei costi per l’energia del 60-70%, sino addirittura a quadruplicare per quelle realtà energivore, come l’industria pesante, le manifatture del vetro e quelle delle piastrelle da arredamento. Di fatto, sebbene la situazione italiana rientri nella media europea, sono venuti al pettine tutti i nodi di politiche industriali carenti e mai studiate in modo strutturale. Dal rifiuto referendario per la produzione nazionale di energia nucleare, nei primi anni ’90, alle teorie del “NO a tutto”, “No Tav”, “No Tap”, NO ai termovalorizzatori, NO alle estrazioni marine di gas naturale. Uno scenario desolante, reso ancor più critico dal fabbisogno interno di gas naturale e di altri idrocarburi che dal 2010 non conosce flessioni.

In questo settore quali sono le principali criticità che rileva?
L’Italia necessita annualmente di 76 MLD (miliardi) di metri cubi (sono i dati del 2021). Solo il 6%, pari a 3,3 MLD, viene estratto nel nostro Paese. Il resto deve essere importato. La Russia provvede per oltre il 38% del nostro consumo, pari a 29 MLD di metri cubi all’anno. Una quantità enorme se si pensa che le nostre lungimiranti politiche energetiche han fatto salire dal 30% al 44% la dipendenza dal gas estero, nel solo 2015.  Ma è anche interessante vedere come giunge il prodotto nel nostro territorio. Ebbene, la quasi totalità attraverso gasdotti i cui terminali sono ubicati in diverse regioni, da Melendugno, in Puglia, ove arriva – e, dico, finalmente – gas dall’Azerbaijan attraverso la TAP (Trans Adriatic Pipeline), a Tarvisio, ove giunge il gas russo proveniente dall’Austria mediante la TAG (Trans Austria Gas), al Passo Greis, in Piemonte, ove perviene quello estratto in Olanda e Norvegia e, infine, in Sicilia ove, a Mazzara del Vallo, giunge gas dall’Algeria attraverso la TransMed, e a Gela, ove affluisce il gas libico tramite il Greenstream. Mentre, in prevalenza dal Qatar, giungono le navi metaniere che ci riforniscono per il 13% del nostro fabbisogno. Va sottolineato che, al contrario del gas veicolato attraverso i gasdotti, già pronto all’uso e immediatamente immesso nella rete nazionale, il prodotto trasportato via nave deve essere prima convertito in forma liquida (GNL) e, quindi, una volta giunto nei porti di Livorno o di Cavarzere (Rovigo) o, ancora, di Panigaglia (La Spezia), riconvertito mediante i rigassificatori, con conseguente aumento dei costi.

Ritiene che le estrazioni in Adriatico avrebbero potuto dare un contributo significativo all’approvvigionamento?
Tra le politiche del “No a tutto”, vi è una legge del 2008, la n. 133, che impedisce estrazioni nel Mare Adriatico giustificando il divieto con il timore della subsidenza, cioè l’abbassamento del suolo sottomarino, nonostante la disponibilità di moderne tecnologie in grado di ovviare a tale fenomeno indotto dalle estrazioni dal sottosuolo. Di fatto, la maggior parte delle infrastrutture estrattive sono oggi ferme. E pensare che l’Italia è leader mondiale nella realizzazione di piattaforme marine. Lo scorso marzo, la più importante azienda italiana, la ravennate Rossetti, ha terminato la costruzione della Tyre II, la più grande piattaforma al mondo per l’estrazione del metano, acquistata dalla Danimarca. Dal canto nostro, abbiamo sinora preferito dipendere dal mercato estero, principale responsabile del nostro debito pubblico. C’è però anche chi si oppone al vedere in mare, all’orizzonte, delle piattaforme che disturbano il panorama delle nostre vacanze balneari. Personalmente, penso che, ben presto, col costo che avranno le bollette, in vacanza non ci potremo nemmeno più andare.

Ma le altre nazioni rivierasche hanno gli stessi problemi?
Questo è un aspetto della vicenda che definirei grottesco.  Contrariamente a quanto avviene in Italia, la Croazia ha piantato nell’Adriatico le proprie piattaforme ed estrae, indisturbata, dai comuni giacimenti sottomarini. Peraltro, il governo croato ha di recente dichiarato che aumenterà del 20% l’estrazione del gas in Adriatico entro il 2024. Un altro esempio è l’Algeria, con la quale abbiamo pure stipulato recentemente un accordo per incrementare il pompaggio di gas naturale verso la Sicilia, ha unilateralmente dichiarato Zona di Esclusivo interesse Economico (ZEE) un’enorme area marittima che, dalle coste algerine, lambisce le acque territoriali della Sardegna sud-occidentale. Ovviamente, per estrarre gas. Il nostro Paese non ha nemmeno battuto ciglio. In altre parole, estrae gas quasi in casa nostra – che potremmo tranquillamente estrarre noi altri – e ce lo vende tranquillamente, perché noi, per legge, non possiamo farlo. La cosa più aberrante è che, tra le aziende che estraggono per conto dell’Algeria, vi è addirittura la nostra ENI. Le sanzioni imposte alla Russia dall’occidente e, quindi, anche dall’Italia, comportano la necessità di cercare altrove le risorse energetiche necessarie per far funzionare imprese e famiglie. Per di più, con la prospettiva di dover attuare prima o poi un embargo totale nei confronti di Mosca al quale difficilmente ci sottrarremo, sebbene a livello europeo si delineino già i primi distinguo. Al di là del possibile incremento di afflusso di gas, realizzabile di massima con gli impianti disponibili, ma che intanto pone non poche limitazioni e i necessari tempi tecnici per adattare le strutture ai maggiori flussi, va pure detto che gli accordi che il governo ha di recente finalizzato al di fuori della cerchia dei partner consolidati devono misurarsi prima di tutto con la concorrenza degli altri Paesi occidentali, alle prese con gli stessi problemi. Risultato: dobbiamo aspettarci un ulteriore incremento dei prezzi imposto dal mercato. Parliamo poi di gas che dovrà affluire via mare, cioè di un prodotto intrinsecamente più costoso e per il quale soffriamo di una carenza di strutture. Per questo, l’Italia ha già acquisito una nave metaniera da ancorare ed utilizzare permanentemente come rigassificatore, mentre già si pensa ad una seconda imbarcazione. Insomma, costi che si aggiungono a costi e un debito pubblico che sale sempre più.

Il generale Del Casale

Il governo italiano ha avviato l’interlocuzione con diversi Paesi per ampliare le fonti di approvvigionamento per superare così la dipendenza dalla Russia. È un obiettivo perseguibile?
È un’iniziativa assai apprezzabile. Ma, a conti fatti, l’intero sistema di forniture non entrerà a regime prima della fine del 2023, nella migliore delle ipotesi. Questo significa che, salvo cambiamenti, al momento prevedibili, ma non ancora definiti, dovremo fare affidamento sulle ingenti riserve già presenti sul nostro territorio. Non sarebbe la prima volta. Chi porta i capelli dello stesso colore di quei pochi che popolano il mio capo ricorderà il periodo dell’austerity. Era il 1973 e l’Italia si trovò a dover fronteggiare una gravissima crisi petrolifera determinata dall’atteggiamento oltranzista dei paesi, per lo più del mondo arabo, produttori di petrolio. Crisi che fu superata dall’avvedutezza dei governi del periodo che, sebbene caratterizzati da forte litigiosità politica interna, ebbero la capacità di correre per tempo ai ripari e la crisi fu superata. Erano i tempi delle targhe alterne e delle domeniche in bicicletta. Ma torniamo a noi. Tutto vero, quindi. Abbiamo stretto accordi con Congo, Angola ed Egitto e presto lo faremo col Mozambico, ma ovunque in questi paesi l’attività estrattiva è assicurata da Rosneft che, con Gazprom, rappresenta la coppia russa di colossi energetici di Stato. Quindi imponiamo sanzioni, ma finiamo col servirci di entità comunque legate alla Russia. E non consideriamo l’Egitto, che ci fornirà fino a 9 MLD di metri cubi all’anno, a partire dal 2023, ma con il quale una parte del nostro Parlamento non vorrebbe avere rapporti per via del caso Regeni, tuttora irrisolto. Un caso a motivo del quale naufragò ben presto anche un accordo internazionale che avrebbe dovuto vedere tra i partner anche Francia, Israele, Cipro e Grecia per l’estrazione di gas nel Mediterraneo orientale, con la realizzazione del gasdotto “EastMed”. Progetto, comunque, dal costo elevato e per il momento inopinatamente tralasciato.

Ci sono le condizioni per ben sperare?
L’orizzonte non è affatto roseo. Una domanda peraltro è d’obbligo: ci possiamo permettere tutto questo e, se sì, per quanto tempo ancora? Non possiamo estrarre in mare. Non possiamo produrre energia nucleare “pulita”, ottenuta cioè con sistemi di ultima generazione, sebbene poi acquistiamo dalla Francia energia elettrica generata dalla centrale di Grenoble, a meno di 200 chilometri dal nostro confine. Inseguiamo il sogno delle energie alternative, ma parliamo di una risorsa che oggi vale solo il 37% dei consumi nel settore elettrico, secondo i dati resi noti dal Gestore dei Servizi Energetici (GSE). Si tratta, quindi, di un percorso ancora molto lungo, dispendioso e denso di ostacoli, anche burocratici, ma che, prima o poi, dovrebbe condurci verso una società “green”. Per lo meno, così si spera.

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