All’anagrafe è Marco Colagioia, ma tutti sia nella sua Montenero di Bisaccia, che nel limitrofo Abruzzo, lo conoscono come Bricì. Siamo stati nel backstage del suo ultimo live in acustica a Vasto, in cui Marco con voce, chitarra e armonica a bocca, ha portato on stage le sonorità di “So youth for the coccia sane” (sono andato fuori di testa), il primo album autoprodotto dalla sua etichetta Bricì nel 2019. Titolo che sembra strizzare l’occhio all’inglese ma che in realtà non è altro che un gioco di parole con il dialetto locale, con la pronuncia che fa il verso al molisano “So jut fòr de coccia sane”.
«Sono Bricì dalla nascita – racconta Marco -. È il soprannome di famiglia, diminutivo di bricicc (bruciato, ndr) era quello del mio bisnonno Zenone, e lo è stato di mio nonno Pasquale. Provengo da una famiglia di creativi, mio padre suonava la chitarra, mio nonno il mandolino. Negli anni ‘70 e ‘80 papà faceva il turnista in una band con cui ha girato club e piazze di tutta Italia. Quindi l’amore e la passione per la musica sono proprio nel mio DNA. È una passione che nel tempo ho coltivato, legandola anche ad altre forme d’arte». Dall’hardcore punk esplorato da adolescente con la sua prima band I Rigetto, «insieme abbiamo registrato due album autoprodotti, è stata la mia gavetta, lì mi sono fatto le ossa», passando per l’esperienza più soft con l’alternative rock dei SonicFlowers, «con loro ho registrato un disco, abbiamo girato molto ed è stata una bella esperienza», Bricì ha raggiunto la maturità musicale iniziando a scrivere dei pezzi come cantautore. «Ho attraversato dei periodi difficili, e posso dire di essere riuscito a rinascere anche grazie alla musica. La musica è una costante nella mia vita, mi ha aiutato ad uscire dai momenti di buio, ma era lì anche ad accompagnare quelli di grande felicità. La musica c’è sempre stata nel bene e nel male».
«Il mio disco è interamente dialettale – sottolinea Marco Bricì -. Adoro il dialetto del mio paese, che considero un paese autonomo visto che per me non è nè Abruzzo nè Molise, ma ha un qualcosa di tutte e due le regioni, e anche i dialetti condividono molti elementi in comune. Mi piaceva avere una particolarità e ho scelto proprio quella di raccontare storie in dialetto che considero la mia lingua madre: lo parlo quotidianamente da sempre e soprattutto, molto spesso, penso in dialetto». Un disco che racconta la realtà di provincia, le cui canzoni parlano della vita nei piccoli centri, sospesa tra un passato che spesso pesa come un macigno ed un presente dai contorni poco chiari. Ma anche testi che raccontano tradizioni, cultura popolare, o brani che rievocano tematiche attuali, come quelle della guerra, della tossicodipendenza, del precariato, e che parlano d’amore o della forza di alzare la testa e di reagire ad un mondo che ci fa sentire sempre più soli e ad una società in cui «abbiamo tutto, ma in realtà non siamo mai soddisfatti di niente».
Testi accompagnati non solo da chitarra e armonica a bocca, ma anche da strumenti meno convenzionali. «Sono sempre andato alla ricerca di strumenti tipici tradizionali, anche legati al territorio come organetti, zampogne e ciaramelle, strumenti fuori dagli schemi. Non ho avuto insegnanti nello studio di questi strumenti, diciamo che mi sono impratichito da solo. Quello che tengo sempre a sottolineare è che io suono, faccio musica, compongo testi, ma per me questo è un hobby. Nella vita faccio l’operaio, è il lavoro che ho sempre fatto e vado fiero di questa cosa. In questo periodo quello che manca nel panorama musicale locale è proprio il cantautorato e, attraverso la mia musica, spero di far appassionare i ragazzi, specialmente i più giovani, di spingerli a suonare uno strumento, a creare, a comporre. Quando ero adolescente c’erano dei gruppi locali che mi hanno ispirato molto, mi hanno fatto crescere, e mi piacerebbe avere lo stesso ascendente sui ragazzi». Bricì tornerà presto in studio per registrare i brani del suo prossimo album.
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