L’espressione in lingua inglese Fake news, e in italiano false notizie, notizie fasulle, o ancora pseudonotizie, indica articoli o pubblicazioni su reti sociali redatti con informazioni inventate, ingannevoli o distorte, resi pubblici con il deliberato intento di disinformare o di creare scandalo attraverso i mezzi di informazione, oppure di attirare click su Internet. Così l’enciclopedia online Wikipedia riassume il concetto di fake news, la “bufala” nostrana, sebbene quest’ultima espressione faccia di solito riferimento a notizie del tutto prive di veridicità, confezionata ad hoc per attirare nella sua rete il maggior numero di utenti. In un mondo sempre più virtuale e dove l’informazione on-line diventa sempre più diffusa e necessaria, le fake news trovano un terreno particolarmente fertile per mimetizzarsi, diffondersi e sostituirsi alle notizie verificate.
Come fare, quindi, a riconoscerle e ad evitarle per non rischiare di diventare inconsapevolmente strumenti di diffusione di massa della disinformazione? L’argomento è stato al centro, questa mattina, di uno degli incontri della Festival della Scienza, Ad/Ventura, in corso dal 28 marzo al 2 aprile al liceo scientifico “Raffaele Mattioli” di Vasto. Incontro inserito «all’interno di un progetto di cittadinanza attiva nato in piena pandemia che verte sulla comunicazione – spiega la professoressa Carla Orsatti -. Un progetto importante che mostra come comunicazione e informazione siano alla base del nostro essere cittadini consapevoli e sappiamo quanto questo sia importante in questo momento così particolare».
A parlare di fake news, fact checking e disinformazione, Noemi Urso caporedattrice di “Butac: Bufale un tanto al chilo”, pagina che si occupa di raccogliere segnalazioni di notizie “di dubbia provenienza” e di dare alcune linee guida per permettere ai lettori di riconoscere le fake news. Un sito che, ha spiegato Noemi, «nasce nel 2013 come rubrica sul sito Lega Nerd, in cui il fondatore, Michelangelo Coltelli, pubblicava dei post di verifica delle notizie». Da “pagina per amici” Butac è poi «riuscita ad ampliare la redazione e ad organizzarla per aiutare gli utenti a capire come fare le verifiche di fattibilità. Lo scopo del sito non è tanto comunicare se una notizia sia vera o meno, ma spiegare come fare per verificarne l’attendibilità. È proprio questo il nostro punto di forza: aver voglia di condividere quello che abbiamo appreso nel corso degli anni, ovvero spiegare come fare una ricerca di una notizia falsa, individuare i campanelli di allarme che dovrebbero accendersi quando sentiamo o leggiamo una notizia dubbia e fornire qualche indicazione su come fare le ricerche. Siamo molto fieri di poter portare Butac nelle scuole proprio per questo motivo: quello che facciamo non è soltanto fact checking ma è una cosa più ampia che coinvolge lo sviluppo dello spirito critico, del pensiero critico e che può comunque rivelarsi utile in altri aspetti della vita». Tutti argomenti che i ragazzi di Butac hanno raccolto nel libro Fake news. Cosa sono e come imparare a riconoscere le false notizie.
«Dal 2016 quella delle fake news è diventata una problematica molto invasiva, tanto da portare esperti di giornalismo e di comunicazione a chiedere che l’espressione non venisse più utilizzata, sia perché poteva essere fuorviante, sia perché veniva utilizzata da persone che abitualmente diffondevano le fake news, allo scopo di contestare chi li contestava, tanto che il termine è arrivato ad essere utilizzato proprio per indicare qualsiasi cosa non ci piacesse o con cui non fossimo d’accordo. A quel punto è stato necessario l’intervento del Consiglio d’Europa che ha chiesto di utilizzare, al posto del termine fake news, quello di information disorder. In un report il Consiglio ha inquadrato la problematica definendola “information disorder”, termine, “disorder”, traducibile in italiano sia come disordine che come malattia, e che rende perfettamente le due facce della medaglia: da una parte c’è la dimensione del caos informativo, dall’altra il termine, inteso come concetto medico, che rende possibile di associare questo tipo di contenuto al concetto di virus, di viralità. Possiamo definire quindi il problema come una “malattia dell’informazione”». Un concetto con più sfaccettature quello dell’information disorder che, a differenza della bufala, informazione senza alcun elemento di realtà, non è una notizia necessariamente falsa. «In questo caso ci troviamo a parlare di misinformation, disinformation e malinformation. La disinformation è ciò che in italiano è definito disinformazione, ed è quello che contiene una parte di verità e una di menzogna; per misinformation si intende un’informazione falsa ma diffusa non a scopo di danno, una sorta di errore fatto in buona fede. Poi c’è la malinformation, la forma più subdola, quella fatta di informazioni vere ma rese pubbliche appositamente per fare danno, come i leaks delle e-mail. Si tratta di solito di informazioni estrapolate, decontestualizzate e date in pasto al pubblico per generare confusione e sfiducia. Una popolazione confusa, una cittadinanza confusa, si informa male e fa delle scelte sbagliate. È per questo che democrazia e comunicazione sono strettamente collegate: la democrazia passa da una cittadinanza informata, da cittadini informati».
Esiste un modo sicuro per individuare un caso di “infomation disorder”? «Non esistono segni inequivocabili che indicano che ci si trovi davanti ad una fake news – spiega Noemi Urso -. Ci sono alcune piccole spie, come elementi grafici che portano ad attirare l’attenzione, penso ad esempio a titoli in maiuscolo, o preceduti da punti esclamativi. Questi non sono elementi giornalistici, ma simboli inseriti ad hoc per attirare l’attenzione, in questi casi si deve accendere un campanello d’allarme. Lo stesso discorso vale per le notizie che troviamo su un blog sconosciuto ma non su una testata giornalistica, in questo caso ci si dovrebbe chiedere: “se è un’informazione effettivamente valida, qualcuno la farebbe uscire su un giornale; quindi, perché una notizia sconvolgente dovrebbe stare su un blog sconosciuto e non su una testata giornalistica?” Sarebbe il caso di porsi sempre delle domande, di mettere sempre in campo il pensiero critico, lo spirito critico. Sostanzialmente è tutto nelle mani negli utenti: non esiste un filtro tra noi e la rete, siamo noi che dobbiamo mettere questo filtro acquisendo le competenze che portano ad utilizzare lo strumento Internet per fare il nostro bene e non il bene di qualcun altro. Sono atteggiamenti che dovremmo assumere ogni volta che apriamo i social, di fronte a quello che vediamo, leggiamo e, soprattutto, condividiamo. Tenete acceso il cervello».