Nadia Rucci, 53 anni, tre figli, è una ricercatrice abruzzese dell’Università degli Studi dell’Aquila, impegnata dal 2020 in un progetto finanziato da Fondazione Airc (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro).
È nata in Francia, poi la famiglia si trasferì a Vasto, quando lei aveva appena un anno e mezzo, ed è in riva all’Adriatico che ha vissuto la sua giovinezza. La sua passione per la chimica e la biologia è nata sui banchi dell’istituto Palizzi, dove ha frequentato il commerciale con indirizzo mercantile. «Ero negata per la ragioneria ma l’incontro con la Biologia al primo anno è stato importante e nel triennio c’era molta chimica, andavamo spesso in laboratorio. E lì ho iniziato ad appassionarmi a queste materie». La maturità con il massimo dei voti ha convinto i genitori a farle proseguire gli studi con l’università, iscrivendosi a Biologia alla Sapienza di Roma. «Una scelta di cuore per seguire la mia passione». Nel periodo universitario è arrivata anche l’occasione di avvicinarsi alla ricerca, con il dottorato a L’Aquila. «Ho iniziato a frequentare il laboratorio per la tesi sperimentale – racconta la professoressa Rucci – e lì mi sono appassionata. Certo, la passione non basta, perché ognuno vorrebbe fare il lavoro più bello del mondo ma non è detto che possa farlo».
«Tanti sacrifici e incognite ma ho sempre avuto l’appoggio della mia famiglia»
Lei ha avuto la «possibilità di restare in laboratorio dopo la laurea, proseguendo nella formazione». L’Aquila le offriva più prospettive e così ha intrapreso il suo percorso, pur dovendo fare sacrifici per una decina d’anni, in una situazione di precariato comune a molti giovani ricercatori. «Sono entrata in un laboratorio in cui si lavorava bene, con la preziosa guida del Professor Jannini per il Dottorato di Ricerca e successivamente della professoressa Anna Maria Teti. Così ho capito che questa era la mia strada». «Ci sono stati tanti sacrifici, all’inizio è un po’ un’incognita. In questo ho avuto sempre l’appoggio della mia famiglia. Prima dei miei genitori, poi del mio compagno e dei miei figli».
Prezioso, per supportare la sua attività di ricerca, è stato l’incontro con Fondazione Airc. «Ho avuto il primo finanziamento nel 2011, quando non ero ancora strutturata. È stato una boccata d’ossigeno perché un finanziamento significa avere una propria ricerca e poter pubblicare. Per me è stato un onore e ha rappresentato il riscontro tangibile che quanto avevamo fato fino a quel momento con il mio gruppo era stato apprezzato».
Nel 2020 ha preso il via un progetto, finanziato da Fondazione Airc, per trovare nuove via di diagnosi e cura dei tumori ossei attraverso le vescicole extracellulari. «Le statistiche ci dicono che i tumori come anche altri carcinomi, finché restano nel sito originario, sono altamente curabili. Il problema insorge quando, dalla mammella, vanno in altre sedi. Nel 70% dei casi i carcinomi della mammella metastatizzano all’osso». Oggi, per la scienza, le metastasi sono considerate ancora incurabili, vengono definite trattabili. «Il nostro obiettivo è cercare farmaci per curare e allungare la vita media delle pazienti e migliorarne la qualità della vita con l’obiettivo più alto di curarle». L’attuale progetto di ricerca del gruppo di lavoro aquilano guidato dalla professoressa Rucci parte da una recente scoperta. «Le cellule sane, così come quelle tumorali, rilasciano delle vescicole – possiamo paragonarle a dei piccoli cargo- , che contengono all’interno una serie di molecole con informazioni. Le cellule, rilasciando in circolo le vescicole, possono andare a programmare un organo a distanza. Quindi, in caso di cellule tumorali, vanno a preparare il sito metastatico, come l’osso, pur rimanendo nel sito primitivo, nel nostro caso la mammella. Così facendo modificano il micro-ambiente della futura metastasi per fare in modo che le cellule possano attecchire». Da qui la duplice funzione delle vescicole che, «nel rilasciare le cellule tumorali, favoriscono la metastatizzazione. Però, al tempo stesso, le vescicole, contengono del materiale che è un’impronta della cellula tumorale». Quindi, riuscire ad isolarle dal sangue si può effettuare una diagnosi, «posso sapere se c’è un tumore primitivo e sapere se si sta spostando verso siti distanti». Inoltre, in persone che hanno già sviluppato il tumore, «sono anche marcatori che ci possono dire se una terapia sta funzionando». Studiare le vescicole permette di capire come è fatto il tumore che le ha rilasciate e come andrà avanti.
Nel proseguire il progetto di durata quinquennale è in fase di studio una possibilità che migliorerebbe la qualità delle cure. «Stiamo valutando la possibilità di utilizzare le vescicole come dei cargo, per caricarle con farmaci anti-tumorali. Le possiamo caricare con agenti chemioterapici in grado di andare a colpire unicamente le cellule tumorali e non le cellule sane. In quel modo sarebbero limitati gli effetti collaterali della chemioterapia che, lo sappiamo, sono molto pesanti. Proprio in questo periodo stiamo lavorando a un protocollo che ci permetta di caricare le nostre vescicole con diverse sostanze». Più in generale il progetto di ricerca finanziato da Airc è rivolto «anche all’osteosarcoma, tumore osseo. La lente d’ingrandimento è riferita all’osso, sia come sito metastatico che come sito di sviluppo di un tumore primario».
«Lavorare con i giovani è sempre stimolante»
Nella sua attività di ricercatrice Nadia Rucci si trova alla guida di un gruppo di giovani appassionati in cui rivede i suoi inizi in laboratorio. «Come me giovani che si trovano in diverse fasi del loro percorso, dagli studenti in biotecnologie fino ad arrivare ad un post-doc. È una squadra mista con diversi gradi di esperienza ma sono tutti molto bravi e interessati. Lavorare con i giovani è sempre stimolante».
Tanto entusiasmo e amore per la ricerca che, in più di qualche occasione, si scontrano con le difficoltà del nostro Paese. «Questo è un lavoro che si deve fare con passione. È vero che in Italia abbiamo le nostre difficoltà ma, anche in piccole università, ci sono persone volenterose che ti permettono di lavorare e costruirti un curriculum. Purtroppo, questo è vero, perdiamo tante persone altamente formate. Tanti ragazzi italiani vanno all’estero e si difendono bene, perché hanno un’ottima preparazione di base. Ma da noi non è impossibile fare ricerca, bisogna trovare laboratori dove ci sono finanziamenti. E in questo l’Airc è da ringraziare e sono da ringraziare tutte le persone che donano per far andare avanti la ricerca sul cancro. Sapere che c’è questo sostegno è un orgoglio e, allo stesso tempo, una responsabilità».
Il lavoro è sempre da conciliare con la famiglia. «Bisogna stare sempre in equilibrio. Vai al lavoro e pensi di non dedicare il giusto tempo alla famiglia, stai in famiglia e credi di trascurare il lavoro. Finisce che non ti senti mai in pace con te stessa. La famiglia è importante, i figli meritano le giuste attenzioni. C’è stato un periodo in cui ho viaggiato anche molto per partecipare a convegni e altre attività. Da ragazza stavo in laboratorio dalle 8 alle 20, per me era un piacere e lo sarebbe anche oggi. Ma bisogna dare a tutto il giusto spazio. Alla fine è solo questione di organizzazione. Oggi mi capita di lavorare molto anche al mattino molto presto, quando in casa tutti dormono. Però sono sempre un supporto per me. Io cerco di essere un po’ d’esempio nel mettere tanto impegno nella ricerca. Spero che possano acquisire questa consapevolezza».