«Non mi viene in mente un momento preciso o un evento preciso, ma credo piuttosto che la mia sia stata una sorta di consapevolezza maturata e cresciuta in me nel corso degli anni, anche se forse a far scattare la passione per quello che faccio fu la prima esperienza come volontario internazionale in Messico». Sono queste le prime parole che Chiara Lizzi 44 anni, lancianese residente a Roma, madre di due bambine e da circa quindici anni impegnata professionalmente nel mondo delle organizzazioni non governative, ci rivolge durante la nostra chiacchierata: e proprio dalla definizione di quello che è il suo ambito professionale, ma anche e soprattutto umano e dalla spiegazione di quello che rappresenta quella sigla, sempre più spesso al centro delle cronache moderne, che prende vita il nostro discorso.
«Tecnicamente una ong è un’organizzazione indipendente da stati ed entità internazionali, il cui lavoro che è senza fini di lucro, si concretizza in diversi ambiti tra cui quello riguardante gli aiuti umanitari e la cooperazione allo sviluppo. Tuttavia – continua Chiara – nel linguaggio comune, spesso vengono indicate come ong tutte le organizzazioni impegnate in questi settori, indipendentemente dal loro effettivo stato giuridico». Le ong sono quindi enti sovranazionali in cui le diverse e svariate competenze professionali, confluiscono insieme nel far nascere e portare avanti progetti ed iniziative in tutte le parti del mondo in cui c’è bisogno del loro intervento: dai paesi dell’Africa a quelli dell’America Latina. «Io personalmente – ci racconta Chiara – mi occupo dell’ideazione, supervisione e valutazione di programmi soprattutto in ambito emergenziale: tra le varie esperienze che ho maturato durante questi anni, posso citare quella nelle baraccopoli di Medellin in Colombia, dove era ed è purtroppo ancora forte il reclutamento dei minori tra le bande della criminalità locale e quella vissuta in Africa centrale, precisamente in Kenya dove in qualità di capo progetto ho curato la realizzazione di programmi di aiuti per la popolazione locale colpita dagli scontri scaturiti dalle elezioni presidenziali del 2007.
Successivamente continua Chiara – ho ricoperto la carica di rappresentante di paese in Sudan coordinando una missione di supporto sanitario alle popolazioni del Darfur in guerra ed anche il ruolo coordinatore generale per l’Italia in programmi di supporto al servizio sanitario nazionale per la presa in carico di migranti e rifugiati di recente arrivo e durante l’emergenza Covid-19: da poco poi ho ripreso a lavorare in progetti di cooperazione in paesi terzi, seguendo l’Etiopia e l’emergenza data dalla guerra nella zona del Tigray». Tante esperienze, ma anche e soprattutto il contatto continuo con i bisogni delle persone, ascoltando le storie spesso difficile di uomini, donne e bambini, e cercando di dare loro una risposta, ma soprattutto un futuro in paesi dove la povertà, le guerre e le forti disuguaglianze sociali rendono difficile e spesso impossibile immaginare e pianificare con serenità il domani.
In questa nostra conversazione con Chiara è quindi inevitabile chiederle cosa significa lavorare ma soprattutto far parte di una ong. «Questa è una domanda difficile – ci confida – è un lavoro, sicuramente, ma anche e soprattutto l’unico che intimamente sento di poter fare: francamente non riesco proprio ad immaginarmi impegnata in qualcosa che non sia l’ambito umanitario e di cooperazione internazionale, ma in cuor mio anche se a parole non riesco a spiegarlo, sento che questo rappresenta per me molto più di una professione». Tanti ricordi si affollano mentre parliamo, nella sua nella sua mente e quando le chiediamo quali sono i momenti più belli vissuti durante questi anni ci dice «porto con me sensazioni, tante sensazioni: lo sguardo di una persona che scende da una barca dopo essere stata salvata dalle onde del mare, l’acqua che esce per la prima volta da un pozzo accompagnata dalle risate e dalle grida di stupore dei bambini o il sorriso sincero e grato rivolto da una madre verso il medico che ha aiutato il suo bambino a stare meglio».
Il mondo come casa, il viaggiare spesso continuo e stancante ma che rappresenta anche un’impareggiabile occasione per conoscere e riflettere, confrontandosi con paesi, popoli e culture spesso diversissime tra loro ma sempre e comunque affascinanti. Ma se per Chiara il Darfur (una delle nove province storiche del Sudan, situata nella parte occidentale del paese) è una sorta di luogo del cuore non esiste limite né fisico né umano e né tantomeno geografico a quelle sensazioni uniche che solo il suo lavoro sa darle «il Darfur è un posto sicuramente particolare per me, poiché lì ho avuto la prima vera esperienza in un contesto di insicurezza data dalla guerriglia, però in tutta sincerità non ho una vera e propria preferenza per un luogo specifico: per me era e resta importante vivere e provare quelle sensazioni di cui parlavo prima…quelle sì, sono i veri luoghi dove mi piace tornare anche se solo con la mente, sempre nell’attesa di aggiungere a quelle “sensazioni” altre nuove da vivere ancora».