È una storia d’amore lunga dieci anni (fino ad ora) quella tra Davide Napolitano e la scrittura. L’autore vastese, classe 1992 laureato in Lettere Moderne, con all’attivo cinque opere, dal fantasy alla saggistica, passando per il romanzo storico a quello di formazione, si racconta sulle pagine di Chiaro Quotidiano.
“Le terre di Denangard”, il tuo primo libro, è uscito nel 2012. Com’è iniziata la tua “storia d’amore” con la scrittura?
«Ho iniziato a scrivere nell’estate del mio esame di maturità, una delle prime grandi prove della vita di uno studente, quando ho iniziato a pensare più seriamente al futuro e a chiedermi se buttarmi a capofitto nel lavoro o scegliere un percorso di studi universitari. La scrittura del primo libro quindi, la definirei una scrittura di necessità, ho scritto questo romanzo fantasy, una storia molto semplice, il classico viaggio dell’eroe che deve portare a termine una missione e, col senno di poi, la ricerca di Ben, il protagonista, era anche un po’ la mia ricerca, lui cercava il tiranno da sconfiggere, mentre io cercavo di mettere a fuoco il mio futuro. Entrambi avevamo bisogno di certezze per trovare e la fiducia in noi stessi: in quel caso la scrittura è stata un rifugio, un’evasione dalla realtà e, al tempo stesso, anche una scoperta della realtà. È un romanzo a cui sono molto legato, e che mi piace ancora molto. È stato un primo approccio che mi è servito proprio come crescita personale, e che mi ha portato a capire cosa volessi fare da grande: iscrivermi alla facoltà di Lettere Moderne per coltivare il mio amore per la lettura e per la scrittura e perché mi piacerebbe, un giorno, diventare un insegnante».
Un ciclo fantasy che si chiude, dopo dieci anni dalla pubblicazione de “Le terre di Denangard”, con il tuo ultimo romanzo pubblicato, “Merawen – La leggenda di Eolyn”.
«Merawen segna la chiusura del ciclo delle “Terre di Denangard”, è un ritorno alle origini. Nel libro tornano infatti alcuni personaggi del primo romanzo, ad esempio Ben e i “cattivi” di Denangard, il tiranno Darza e la strega Semiramide, ma la protagonista è un’elfa, Eolyn. Volevo scrivere un libro con una protagonista femminile, perché credo fermamente nella forza delle donne. È un racconto a tratti “cupo”: Eolyn è un’orfana, la madre è morta subito dopo la sua nascita e il padre è stato allontanato dalla figlia, che crede morto anche lui; si parla di amore, non solo sano ma anche “tossico”, ci sono tanti personaggi, anche importanti, che perdono la vita. Credo che il racconto di queste perdite, sia stato molto influenzato dalla morte di mio nonno: la scrittura è stata come una terapia che mi ha aiutato a metabolizzare il lutto. Mio nonno mi ha fatto quasi da padre, i miei genitori sono separati ma, anche se la mia famiglia non mi ha mai fatto percepire l’assenza di una figura paterna, credo che questa “mancanza” si rifletta nella mia difficoltà di delineare le figure dei padri all’interno delle mie storie. Sono molto legato ai miei nonni, e penso che per le famiglie siano un vero e proprio patrimonio storico, una ricchezza».
Oltre al genere fantasy, ti sei misurato anche con il romanzo storico con la pubblicazione di “Un nemico di parole”, pubblicato nel 2018. Com’è nato questo libro?
«È il libro che per me rappresenta la svolta. Il 27 gennaio 2018, giorno del 72° anniversario del Giorno della Memoria, mi sono imbattuto per caso in un articolo che raccontava la storia di Gerhard Kurzbach, sottufficiale tedesco della Wehrmacht, che durante la Seconda guerra mondiale salvò la vita a duecento ebrei polacchi. Il 19 dicembre 2011, Yad Vashem, l’Ente israeliano per la Memoria della Shoah, ha conferito a questo soldato tedesco l’alta onorificenza di “Giusto tra le nazioni” e questo mi ha fatto ricordare una citazione letta nei diari di Etty Hillesum, che ho inserito anche nel libro: «Basterebbe un solo tedesco buono – sosteneva la scrittrice ebrea olandese – e questo tedesco meriterebbe di essere difeso, perché grazie a lui non si avrebbe più il diritto di riversare l’odio su un popolo intero». Sono del parere che sia giusto ricordare tragedie come quella della Shoah, che sono una pagina nera della nostra storia, ma che sia anche importante non rimanere ostaggi della memoria storica, sia individuale che collettiva. La storia di Kurzbach mi ha folgorato e mi sono buttato a capofitto nelle ricerche, lunghissime perché le informazioni scarseggiavano; ho fatto di tutto per cercare i nipoti, o i figli, finché non sono riuscito ad ottenere risposta dall’ambasciata israeliana a Berlino che mi ha messo in contatto con il nipote di Kurzbach, con cui ho iniziato uno scambio di e-mail. Prima di firmare la liberatoria mi ha chiesto per quale motivo volessi raccontare la storia dello zio, e gli ho detto che la sua storia, ovvero quella di un uomo che aveva deciso di opporsi al sistema per salvare delle vite, meritava di essere raccontata. Scrivere questo libro è stata una delle prove più difficili, perché dovevo parlare di fatti realmente accaduti e di persone realmente esistite, evitando di profanarne la memoria; ma è anche il libro a cui, al momento, sono più legato, tanto da mandarne una copia al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella».
Cosa rappresenta per te la scrittura?
«Per me la scrittura è libertà, è rifugio, è conoscenza. La scrittura mi aiuta a comprendere la realtà perché mi costringe a fermarmi, a riflettere. Quando scrivo devo decidere con cura quali parole usare, perché sembra facile scrivere, sedersi alla scrivania, digitare una parola dopo l’altra, ma non lo è. La scrittura è maturazione, è una crescita personale, perché c’è un dialogo con me stesso. Scrivere mi aiuta anche a mettere ordine nella realtà, a razionalizzare ciò che accade attorno a me».
Da cosa trai ispirazione quando lavori ai tuoi romanzi?
«L’ispirazione nasce ovunque, da una canzone, da un film, da altri libri, da tutto ciò che è arte. Non saprei dire con precisione come arrivi, e di solito per spiegare come nascono i miei libri, racconto una sorta di “favoletta”, quella dei personaggi che vengono a cercare me: ogni tanto arrivano a casa, a volte si fermano giusto per un caffè e vanno via, il problema è quando restano anche dormire perché poi ogni giorno continuano a “raccontarmi” qualche particolare in più del loro carattere, della loro storia, di quello che vorrebbero dire. Tutti i miei libri nascono un po’ perché mi faccio compagnia scrivendo, ci sono i personaggi le loro storie e il fascino di descriverli. Poi ovviamente in quello che scrivo, come succede a tutti gli scrittori, c’è un po’ di me, delle mie esperienze personali, dei rapporti familiari e personali delle mie idee. Faccio anche molto riferimento anche alla quotidianità, a quello che leggo sui giornali o che succede attorno a me, e se arriva l’idea giusta la scrivo subito da qualche parte, spesso sui post-it, di cui ormai la mia camera è piena. Di solito mi piace dedicarmi alla scrittura la sera, perché trovo sia il momento più tranquillo della giornata, mi rilassa e mi permette di staccare dalla realtà. Adesso però, lavorando part time proprio la sera, approfitto dei ritagli di tempo durante la mattina o il pomeriggio».
Quali sono i tuoi autori “di riferimento”?
«Sicuramente Dacia Maraini, che penso sia una delle scrittrici viventi più importanti del ‘900, mi piace molto il suo stile di scrittura e il modo in cui trasmette emozioni e sentimenti; apprezzo anche la letteratura di viaggio di Tiziano Terzani. Tra i “classici” italiani mi piacciono Giuseppe Dessì e Goffredo Parise. Per il fantasy “nostrano” Elisabetta Gnone, autrice dei libri di Fairy Oak, mentre tra le opere d’oltreoceano “La saga di Terramare” di Ursula K.Le Guin. Ovviamente non posso non citare due mostri sacri del fantasy, gli inglesi C.S. Lewis, autore delle cronache di Narnia, e J.R.R. Tolkien, papà del Signore degli Anelli. Tra i libri che ho letto ultimamente mi è piaciuto moltissimo L’Arminuta, di Donatella Di Pietrantonio».
Questi dieci anni sono stati un “trampolino di lancio” che ti ha permesso di metterti alla prova con generi diversi. Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
«Nel mio futuro da studente c’è una laurea magistrale in Filologia, linguistica e tradizioni letterarie all’Università “D’Annunzio” di Chieti. In quello da scrittore, c’è “A testa alta” un libro a cui sto lavorando adesso, che potremmo definire un romanzo di formazione. Una prova difficile, perché con questo nuovo libro sto cercando di alzare il livello di scrittura, di trovare una maturità come autore, e perché no, anche una mia cifra stilistica. È la prima volta che vado passo dopo passo, perché di solito la storia era sempre piuttosto chiara nella mia mente, quindi, sarà un lavoro più difficile ma al tempo stesso più soddisfacente, più stimolante, perché è anche una sfida con me stesso, per capirmi e mettere alla prova le mie capacità. Dopo il fantasy, il saggio di critica letteraria scritto nel 2015 e Jamila, una storia d’amore “interculturale” ambientata a Roma che tra le altre cose tratta il tema del razzismo e del pregiudizio, e il romanzo storico, è il momento di cimentarsi con la narrativa non di genere. Il protagonista del libro è Matteo, che vive con sua madre, tossicodipendente e anaffettiva e che vorrebbe andar via di casa, ma rinuncia per amore del fratello più piccolo, che sente di dover proteggere. Sono alla prima stesura, e magari molte cose cambieranno, ma sono già innamorato dei personaggi femminili di questo romanzo, sono proprio fan delle figure femminili in generale, perché sono convinto che le donne già nella vita, nella realtà abbiano molti più contenuti della maggior parte degli uomini. È una storia che parla di riscatto, di sconfitti, un concetto abbastanza “verghiano”, ma io non sono Verga e non sono un verista, a me piace il lieto fine, perché c’è già la vita che non sempre lo garantisce. Io punto alla rivincita dei protagonisti, al loro riscatto, alla vittoria di chi, pur partendo svantaggiato, riesce a superare le difficoltà. E anche Matteo deve vincere, per uscire “A testa alta” dal baratro in cui è costretto a vivere».